Riceviamo e pubblichiamo un'interessante riflessione realizzata da uno studente del corso di laurea in Infermieristica giunto ormai al termine del proprio percorso formativo.
La verità è che ho sempre ammirato la realtà ospedaliera, forse infettato dalla presenza in famiglia di un Infermiere che ha sempre amato visceralmente la sua professione,
fino a quel fatidico giorno in cui, durante una partita amichevole di calcio tra medici e infermieri, perse tragicamente la vita.
Arrivata la maturità, non fu difficile per me scegliere di intraprendere quel percorso che fin da piccolo mi aveva affascinato e che, in seguito, avevo iniziato a vedere anche come una sorta di passaggio di testimone virtuale.
Superato il test di ammissione, potevo finalmente conoscere quella realtà dall’interno, per viverla, studiarla, e il vecchio ordinamento a cui appartenevo mi avrebbe permesso di farlo per 2820 ore, grazie al valore di 47 ore per ogni CFU. forse poche, forse troppe, ma la verità è che l’avrei saputo soltanto a lavori in corso, o almeno quando la strada alle spalle sarebbe stata la stessa di quella che mi separava dal traguardo.
Oggi, ad una manciata di ore da quella meta, tirare le somme viene quasi spontaneo, quasi come per alleggerirsi del peso di 2820 ore di esperienza che mi hanno formato come uomo prima, e come futuro Infermiere poi.
Di reparti ne ho girati tanti, dalla pediatria alla sala operatoria, dal pronto soccorso alla terapia intensiva, e tanti sono stati i momenti di costruttiva partecipazione e di pura assistenza, così come altrettanti sono stati i momenti dedicati a procedure di competenza non puramente infermieristica. e così, tra un prelievo arterioso ed un cambio di pannolone, ho costruito una scala mentale di tre gradini che hanno rappresentato in me i tre momenti chiave della mia esperienza universitaria: la morte, la vita e la costante denigrazione professionale.
L’altra faccia della medaglia è stata la costante denigrazione professionale, constatata ogni giorno nei vari reparti di assegnazione e messa in atto sia dalla stessa classe infermieristica che da quella medica, che comunque comporta una colpa implicita dell’Infermiere assoggettato che accetta di interpretare il ruolo della pecora nel gregge dell’ignoranza culturale.
L’Infermiere medio ha deciso di accontentarsi di vivere in un limbo (indotto dall’abrogazione del mansionario) in cui tutti fanno tutto e lui fa quello degli altri. il risultato è la progressiva ed esponenziale evoluzione dell’operatore socio sanitario, e la paura della classe medica di vedersi spodestata di un potere che, nonostante le immense potenzialità dimostrate dalla realtà infermieristica pura, rimarrà tale per la sua forte componente politica.
Ciò ha portato da un lato all’espansione tecnica di OSS capaci di oltrepassare il confine infermieristico, avendo la possibilità di effettuare iniezioni , rilevare parametri, e dall’altro, alla presunzione medica di infrangere il vetro divisorio tra due professioni diverse che per resistere necessitano di osservarsi reciprocamente.
La classe infermieristica è diventata l’intercapedine di due pareti che continuano ad avvicinarsi inesorabilmente, fino a soffocarla. Molteplici sono stati i momenti in cui il senso di soffocamento è diventato forte, insostenibile, e le discussioni con i medici e gli infermieri appartenenti a quelle categorie professionali hanno portato in me ad una sorta di rassegnazione mentale che mi sta portando a concludere il pensiero con una speranza, piuttosto che una soluzione.
La vera partita è quella che si gioca ogni giorno per combattere la malattia, nel senso olistico (all’università piace tanto) del termine. una partita in cui medici, infermieri e tutti gli operatori sanitari giocano insieme, nella medesima squadra, per il bene della persona per la quale sono state intraprese le rispettive carriere professionali: il paziente (da patior, colui che soffre).
Simone Gussoni
Immagine: web
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