“Manteniamo e amiamo questo nome: INFERMIERE!”

“Stiravamo i camici dei medici e delle caposala, lavavamo siringhe di vetro, pulivamo ambulatori e studi medici, ma ci siamo sempre sentite INFERMIERE. Il problema è che ora c’è un gran professionismo del cavolo…”

Questa è la breve storia della collega Gabriella, che mi si è raccontata in un commento su Instagram. Una delle tante parabole che parla di ‘vecchi’ infermieri, per carità, ma che mi ha fatto riflettere. Perché rispolvera una questione che si presenta spesso nelle discussioni social degli infermieri di oggi e che è relativa al nostro nome: INFERMIERE.

Non molto tempo fa, in un mio articolo (VEDI), avevo sollevato la questione di come anche il fatto di chiamarsi “infermieri” possa legarci, ancora oggi, indissolubilmente, alle mansioni e ai tanti stereotipi del passato; un ‘vecchiume’ che sembra davvero ancora molto attuale e difficile da sradicare dal nostro nome.

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Anche perché tale anticaglia, fatta di informazioni fasulle, di “abbiamo fatto sempre così”, di scopettoni in mano “per il bene del paziente” e di caffè portati col sorriso ai medici di reparto, viene ancora oggi tramandata alle nuove leve.

E non parliamo di ‘allievi’, bensì di studenti universitari che sperano di diventare dei professionisti veri, ma che si abbassano a tutto pur di terminare il loro percorso in fretta e di avere un buon voto a tirocinio. Senza creare problemi. Senza essere tenuti sottocchio. E ovviamente senza poter sperare in controlli veri da parte di chi di dovere.

Gabriella, col suo scritto, vuole esortare tutti gli infermieri a essere fieri del proprio nome. Della propria storia. Del proprio passato. Della propria identità. E ci sta. Ma… Leggendo il suo racconto, il dubbio rimane: noi, infermieri di oggi, abbiamo davvero qualcosa in comune con queste figure del passato, che portavano il nostro stesso nome? Come è possibile sperare in una qualsivoglia crescita, se ci chiamiamo come loro e se media e cittadini ci identificano ancora oggi con loro?

“Ciao Alessio. Sono un’INFERMIERA, se ancora così si possiamo essere chiamate. Sto facendo un favore ad una collega, mia ex ‘allieva’: sto assistendo il padre ricoverato all’ospedale dopo un intervento chirurgico. È notte e i ricordi del passato mi sovvengono a iosa… Penso a quando ero turnista in questo stesso nosocomio, nei primi anni settanta.

Ovvero quando in reparto avevamo (eravamo per lo più INFERMIERE femmine) non solo i pazienti, ma anche altre mille incombenze da svolgere. Oltre al ‘giro letti’, c’era da stirare i camici dei medici, delle colleghe e delle caposala religiose. E questo dopo aver lavato una cinquantina di siringhe di vetro di vario calibro, asciugate, e messe a sterilizzare nelle stufette a secco con gli altri ferri.

Magari nel frattempo avevi un nuovo entrato e se dal PS non avevano improntato una terapia, si chiamava il medico di guardia (a casa) e la caposala, suora, per farti dare le medicine occorrenti chiuse a chiave negli armadietti.

Gli ospedali, allora, erano enti locali, e nelle piccole realtà contava ben poco far valere la tua professionalità. Non c’erano inservienti nei turni di notte e di giorno c’erano solo per le pulizie delle stanze di degenza e i bagni. Gli studi medici e gli ambulatori, si pulivano di notte. E ci pensavamo noi.

Senza dilungarmi troppo, arrivo al punto. Ovvero a quella che vuole essere la mia riflessione: io mi sono sentita sempre INFERMIERA, non mi sono mai posta il problema se ciò che facevo era adeguato o meno a quello che avevo studiato… Ed è mai possibile che la parola INFERMIERE sia così borderline ora? Sento di colleghi che vorrebbero bandire la nostra denominazione.

E’ che ora c’è un gran ‘professionismo’ del cavolo. Per carità, non dico di tornare ai tempi dove ti consumavi le mani a furia di lavare padelle e di disinfettarle, visto che non potevamo usufruire di materiale a perdere come guanti, mascherine, cuffie, calzari, presidi monouso, ecc. Ma così mi sembra troppo.

Allora era tutto lavabile e dovevamo sterilizzare tutto, ma al di là di tutto c’era più cura della propria persona, avevi uno stile, dovevi averlo. Tra l’altro non ricordo infezioni o malattie intraospedaliere a pazienti, compresi neonati e prematuri. Piuttosto erano gli o le INFERMIERE che si ammalavano di TBC, EPATITI B, contratte da pazienti infetti… E si sapeva sempre tardi, quando il paziente veniva mandato in sanatorio, perché sia i medici sia le caposala non ci consideravano, eravamo solo forza lavoro.

Dopo tante battaglie sindacali, abbiamo ottenuto riscontri sia economici sia dei ruoli professionali. Negli anni sessanta-settanta fare l’INFERMIERA era visto come un ripiego, un lavoro umile, potevi avere anche il posto fisso, ma eri comunque sottopagato rispetto ad altri lavoratori.

Poi, con l’avvento delle ULS tutto è cambiato e… A mio avviso in peggio. Ti sto scrivendo cose che sicuramente saprai già, ma… Tu hai la fortuna e il dono della scrittura, cosa a me negata, e mi piacerebbe tu raccontassi come era l’infermiera. INFERMIERA, parola al giorno d’oggi impropria, o almeno che sembra essere diventata tale, e che andrà perduta nella notte dei tempi.

Ora c’è il tecnicismo e la mancanza di identità di una professione chiamata, una volta, infermieristica. Io, nonostante l’età, adoro la parola INFERMIERA, è un complesso di cooperazione di tante piccole e grandi imprese verso un essere umano, con tutta la tecnologia all’avanguardia. Ecco, verso l’essere umano. NOI, INFERMIERE, non dobbiamo vergognarci di esserlo. Manteniamo questo nome, INFERMIERE.

Grazie Alessio”

Grazie a te per il tuo interessante spunto di riflessione, Gabriella.

Alessio Biondino

Redazione Nurse Times

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