“Una lettera ai medici e agli infermieri che si sono presi cura di mia moglie”

In una commovente lettera al New York Times, un uomo di nome Peter Demarco ha voluto ringraziare i medici e gli infermieri del CHA Cambridge Hospital per la professionalità, la competenza e soprattutto per l’umanità con cui si sono presi cura di sua moglie Laura Levis; morta a soli 34 anni per un attacco d’asma. 

Misero stipendio, demansionamento, turnover bloccato, contratti fermi, precarietà, sfruttamento , disoccupazione, condizioni di lavoro assurde, scarsa tutela… e chi più ne ha, più ne metta. In ogni forum, dibattito, discussione o corsia, gli infermieri italiani ormai parlano quasi esclusivamente di cose del genere.

Problemi sacrosanti, per carità, e che è necessario affrontare con la giusta decisione, in quanto minano alle fondamenta lo status di professionista che l’infermiere si è sudato e meritato negli anni. Ma che, purtroppo, non fanno che alimentare malcontento, rabbia e soprattutto divisioni interne; in una categoria che, già di suo, sembra veramente impossibile da unire per fare blocco. E, finalmente, per farsi sentire.

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L’infermiere, qui da noi, sta purtroppo diventando un professionista spento, apatico, senza più la voglia e la gioia di aiutare il prossimo. Si nota negli ospedali, nel territorio e addirittura nelle università. Già, perché sono soprattutto le nuove leve ad essere contagiate e deviate, in poco tempo, da questa sindrome. Che non è Burnout, attenzione! È qualcosa di diverso: è l’illusione di realizzarsi in qualcosa di importante, diventata poi disillusione; è la frustrazione di averle provate tutte e di aver fatto il massimo, ma di aver ottenuto solo l’amara consapevolezza che qui in Italia “niente serve a niente”. Che i più bravi non vanno avanti e che, anzi, sono considerati un problema.

Ho perso oramai il conto dei colleghi che hanno mollato la professione per tentare altre strade, che si sono pentiti di aver scelto di diventare infermieri, che sono scappati all’estero e che sconsigliano vivamente ai giovani universitari di laurearsi in infermieristica. E ciò è oltre modo… triste.

Perché quella dell’infermiere è in realtà una professione meravigliosa. Al di là di tutto. E oggi, anche se la crisi l’ha messa in ginocchio, sebbene sia continuamente attaccata in modo disinformato e disinformante dai media e nonostante sia oramai chiaro ai più che sparare notizie di presunta malasanità sia diventata una vera e propria moda, mi sento di sottoscriverlo: essere un professionista dell’aiuto è tanto complicato quanto meraviglioso!

È stata una lettera, a ricordarmelo… una lettera straripante di gratitudine, scritta col cuore e probabilmente con le lacrime agli occhi. Uno di quei scritti che ti fanno ricordare chi sei, perché lo sei e quali sono i tuoi imprescindibili obiettivi. Ma che, soprattutto, mi ha fatto riflettere su qualcosa di tremendamente importante: non ce ne accorgiamo più, ma… nel routinario turbine delle nostre giornate in corsia, tra tutte le anime che ci passano accanto e che si ritrovano ad interagire con noi, ce ne sono alcune che ci ricorderanno per sempre. Per ciò che abbiamo fatto, detto, per la competenza dimostrata, per la vicinanza o anche solo per un sorriso, regalato in un momento di angoscia o di dolore. 

La lettera, scritta dal signor Peter DeMarco il 6 ottobre scorso, è stata inviata al New York Times per ringraziare lo staff dell’unità di Terapia Intensiva del CHA Cambridge Hospital; staff che si è preso cura di sua moglie, morta a soli 34 anni dopo un attacco d’asma devastante.

Eccone uno stralcio:

Quando comincio a parlare ai miei amici e parenti a proposito dei sette giorni in cui vi siete presi cura di mia moglie, Laura Levis, di quelli che si rivelarono essere i suoi ultimi giorni della sua giovane vita, loro mi interrompono al 15° nome che gli dico. La lista include i dottori, gli infermieri, gli specialisti, il personale di supporto e addirittura il personale delle pulizie che si sono presi cura di lei. “Come ti ricordi tutti i loro nomi? mi chiedono. “Come potrei non farlo?” Ognuno di voi si è preso cura di Laura con talmente tanta professionalità, gentilezza e dignità mentre giaceva inconscia. Quando necessitava di essere mossa vi scusavate perché avrebbe potuto farle un po’ male sia che vi potesse o meno sentire. Quando auscultavate il suo cuore e i suoi polmoni attraverso i vostri stetoscopi e il suo camice scivolava giù, voi lo tiravate su rispettosamente per coprirla. Voi le mettevate una coperta, non solo quando c’era necessità di regolare la sua temperatura corporea, ma anche quando nella stanza c’era un po’ più di freddo e pensavate che avrebbe dormito più confortevolmente in quel modo.

Vi siete presi notevolmente cura anche dei suoi genitori, aiutandoli a superare l’impatto per entrare in quella camera, offrendo loro acqua fresca per ore, rispondendo alle loro domande per ogni quesito medico con incredibile pazienza. Mio suocero, dottore a sua volta come sapete, si è sentito coinvolto nelle sue cure. Non so dirvi quanto sia stato importante per lui.

Quindi anche come mi avete trattato. Come avrei potuto trovare la forza per andare avanti senza voi? Quante volte siete entrati nella camera trovandomi in lacrime, con la testa appoggiata sulle sue mani, avete fatto il vostro lavoro cercando di essere invisibili? Quante volte mi avete aiutato a mettere la poltrona il più vicino possibile al suo letto, cercando di sistemare i numerosi fili e tubi intorno al suo letto per guadagnare un po’ di spazio? Quante volte vi siete interessati a me, chiedendomi se avessi bisogno di qualcosa, dal cibo al bere, vestiti puliti, una doccia calda o addirittura se necessitassi di una migliore spiegazione delle manovre o semplicemente qualcuno con cui parlare?

Quante volte mi avete abbracciato per consolarmi quando cadevo a pezzi, o chiedendomi della vita di Laura e della persona che era, prendendovi del tempo per vedere le sue foto o leggendo le cose che scrivevo di lei? Quante volte mi avete dato cattive notizie con parole compassionevoli e la tristezza nei vostri occhi?

Quando avevo bisogno di usare il computer per una mail urgente voi facevate in modo di renderlo possibile. Quando ho fatto entrare di nascosto un visitatore molto speciale, il nostro gatto grigio Cola, per un ultimo bacio sul viso di Laura voi “non avete visto niente”. E una sera speciale mi avete dato il pieno consenso di poter portare nella camera di Laura in terapia intensiva più di 50 persone, dagli amici ai colleghi, dagli alunni del college ai parenti. Fu una dimostrazione d’amore che incluse canzoni alla chitarra, canti d’opera, balli e nuove rivelazioni per me di come intensamente mia moglie interessasse alle persone. Fu l’ultima grande notte del nostro matrimonio e non sarebbe avvenuta senza il vostro supporto.

Ci fu un altro momento – veramente una sola ora – che non dimenticherò.

Il giorno finale, mentre aspettavamo l’intervento per l’espianto degli organi di Laura, quello che volevo era rimanere solo con lei. Ma la famiglia e gli amici venivano per darle i loro saluti mentre il tempo volava via. Alle 16 finalmente tutti se ne andarono, io ero emotivamente e fisicamente esausto, avevo bisogno di dormire. Cosi chiesi alle infermiere, Donna e Jen, se potevano darmi una mano a sistemare la poltrona che era scomoda ma era quello che avevo, per poter stare ancora vicino a Laura. Loro ebbero un’idea migliore. Mi chiesero di lasciare la stanza per un momento e quando tornai avevano sistemato Laura nel lato destro del letto, lasciandomi abbastanza spazio al suo fianco nel letto per abbracciarla un’ultima volta. Chiesi loro se potevano darci un’altra ora senza interruzioni, loro annuirono, chiusero le tende e le porte e spensero le luci. Avvicinai il mio corpo al suo. Sembrava cosi bella e glielo dissi, accarezzandole i capelli e la faccia. Sistemandole i vestiti, le baciai il petto e vi appoggiai la testa con la sensazione che si muovesse come se respirasse e come se sentissi il suo cuore battere nelle mie orecchie. Fu il nostro ultimo momento di tenerezza come marito e moglie, e fu anche più naturale, puro e confortante di qualsiasi cosa abbia sentito. Quindi mi addormentai.

Mi ricorderò quell’ultima ora insieme per il resto della mia vita. Fu un regalo e devo ringraziare Donna e Jen per questo.

Davvero vi devo ringraziare. Con la mia eterna gratitudine e affetto.

Peter DeMarco

Alessio Biondino

Fonte: New York Times

Redazione Nurse Times

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