La relazione di cura nell’assistenza: non solo un mestiere di mani e mansioni, ma anche di mente e cuore

Proponiamo un contributo sul tema inviatoci da una nostra lettrice.

Assistere non è solo un mestiere di mani e mansioni, ma anche di mente e cuore. Avere idee precise sugli affetti, sugli elementi, sugli “ingredienti” instillati in una relazione di aiuto è importante quanto saper rifare a dovere un letto o occuparsi dell’igiene personale.

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Innanzitutto quale può essere la definizione della parola “cura”? Ne esiste un solo tipo, oppure più d’uno?

  • Insieme di attività che hanno a che fare con l’attenzione per il benessere di una o più persone;
  • Svolgere le molteplici attività – educazione, assistenza…  – non per il o sul soggetto interlocutore, bensì con lui, suscitando la sua partecipazione attiva all’azione di cura.

Il termine “cura” possiede anche più significati, a seconda degli ambiti cui ci si riferisce: uno è inerente al campo medico, utilizzato come sinonimo di “terapia”, “trattamento” e “guarigione”; l’altro fa riferimento all’attenzione, all’interesse per la persona in tutte le sue sfumature, perciò di cura intesa come “farsi carico dell’assistito a trecentosessanta gradi”.

Nella nostra lingua, sia “cura”, sia “curare” hanno sostanzialmente due significati diversi. Se notiamo una signora tenere per mano un bambino ed esclamare “Curo questo piccolino”, noi capiamo che lo cura nel senso di aiutarlo nella sua crescita e nello sviluppo delle sue competenze. Viceversa, se immaginiamo una donna col camice bianco accanto a un bambino fare la medesima affermazione della signora dell’esempio precedente, comprendiamo che lo cura in senso terapeutico.

Le realtà sopra menzionate, se messe a confronto, ci riportano alla mente due significati: quello del prendersi cura di una persona, ma anche del curare il degente dal punto di vista prettamente medico. Di conseguenza possiamo supporre che il valore sociale attribuito ai due termini sia simile ma diverso, in quanto differiscono il peso e il valore che la nostra cultura attribuisce alle due modalità di cura.

Alla cura terapeutica, intesa come intervento volto alla guarigione, in genere viene dato un alto e forte valore sociale. Alla cura interpretata come prendersi cura dell’altro, ossia far crescere, accompagnare, supportare, promuovere le capacità e potenzialità, viene attribuito purtroppo un basso e debole riconoscimento sociale. In altre parole, il contesto in cui viviamo mette in discussione che curare una persona sia, di per sé, una virtù, quando, invece, sarebbe importante rafforzare e sottolineare questo aspetto perché, in caso contrario, verrà assimilato come comportamento da mettere in atto quasi per costrizione e, appena possibile, da delegare a qualcun altro come se fosse un’incombenza.

Quando si sente parlare di lavoro di cura nella dimensione professionale, si intende un lavoro che produce cura, fondato sulla relazione tra persone e destinato al prossimo per il suo benessere psico-fisico, nonché relazionale e sociale. É impossibile, quindi, che la cura avvenga senza che vi siano in gioco almeno due persone che abbiano rispettivamente il ruolo l’una di curare, l’altra di ricevere la cura. Essa, infatti, richiede un costante scambio e una partecipazione attiva da parte dei protagonisti interessati per il raggiungimento del fine comune.

Nel processo assistenziale la qualità del nursing è decisiva per il paziente (dal latino patiens, “colui che sopporta”), poiché un buon accoglimento e comprensione dei suoi bisogni hanno una notevole rilevanza sull’efficacia del progetto terapeutico. Lo è anche per le figure sanitarie, perché ciò comporta una maggiore conoscenza di se stessi e un riscontro positivo in termini di gratificazione personale.

Sarebbe bene ricordare, però, che l’obiettività in senso assoluto non è possibile nelle relazioni. Nemmeno in quelle di aiuto possiamo essere del tutto oggettivi. Per chi non ha ancora un solido senso dell’identità o per chi non è in contatto con se stesso, identificarsi vuol dire entrare nell’altro fino ad “affogare” in lui e confondersi, creando anche una sorta di dipendenza.

Se invece rimaniamo aperti e compartecipi al sentire degli altri, ma al contempo centrati in noi stessi, non c’è fusionalità, e in qualsiasi momento siamo in grado di distinguere cos’è l’altro e cosa siamo noi. Il senso di sé, quindi, rappresenta l’ancora di salvezza che consente di non perdersi nei mondi altrui e trovare la strada del ritorno a se stessi. Questo è ciò che si intende per empatia matura, un’abilità che richiede sia una grande apertura sia un’elevata capacità di decentramento, di andare cioè oltre l’egocentrismo.

Concludendo, a volte dimentichiamo che chiunque lavori con la malattia, con la sofferenza e con il disagio deve sviluppare e accettare quello che Rollo May un po’ provocatoriamente definisce “coraggio dell’imperfezione”. Secondo tale autore: “Coraggio dell’imperfezione significa portare i propri sforzi su un campo di battaglia importante, laddove si compiono cose significative e dove il fallimento o il successo diventano questioni relativamente secondarie”.

Jessica Tommasi

Redazione Nurse Times

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