Infermieri

Italia e Regno Unito: le vicende e i destini paralleli di due comunità infermieristiche

Il 23 Febbraio di quest'anno, dopo 10 anni di stallo, il Ministero della Salute italiano e diversi sindacati, in primis la triplice Cgil-Cisl-Uil, hanno stipulato una pre-intesa preliminare sul contratto collettivo pubblico dei lavoratori del comparto sanità

Il 23 Febbraio di quest’anno, dopo 10 anni di stallo, il Ministero della Salute italiano e diversi sindacati, in primis la triplice Cgil-Cisl-Uil, hanno stipulato una pre-intesa preliminare sul contratto collettivo pubblico dei lavoratori del comparto sanità

Una preintesa presentata come un grande successo, ma accolta con reazioni duramente critiche dalla comunità infermieristica, che ha invaso le bacheche Facebook delle rappresentanze firmatarie, con proteste sfociate spesso in assalti verbali.

Esattamente un mese dopo, il 21 Marzo, il Secretary of State for Health and Social Care del Regno Unito (l’equivalente del Ministro della Salute italiano), Jeremy Hunt, ha presentato un’offerta triennale di pay deal, ovvero di ridefinizione delle tabelle stipendiali, dei dipendenti dell’NHS, il National Health Service inglese (VEDI).

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La proposta mira a sbloccare il famigerato pay cap, imposto dallo stesso Governo Tory nel 2010, che impone un tetto dell’1% all’aumento di tutti i dipendenti pubblici della Corona, infermieri inclusi.

L’offerta è stata giudicata come il “miglior accordo possibile” da tutti i sindacati presenti al tavolo delle trattative, tranne uno, ma, ancora una volta, è stata bocciata quasi all’unanimità dai professionisti coinvolti, con un coro di reazioni indignate sui social media.

Chi vi scrive, infermiere italiano trapiantato in UK da tre anni, è l’unico ad aver partecipato sia alla manifestazione anti-governativa ed a difesa dell’NHS (VEDI), che ha visto sfilare 60.000 persone a Londra il 3 febbraio; sia allo sciopero generale in Italia, avendo parlato sul palco di piazza Santi Apostoli a Roma, nelle ore decisive della firma della bozza del contratto collettivo pubblico.

Sto quindi osservando, con estrema attenzione, gli eventi che stanno ridefinendo le condizioni di lavoro della categoria infermieristica in Italia e nel Regno Unito, due Paesi legati a doppio filo, già nella simile architettura dei sistemi sanitari.

Ritengo perciò che la comunità infermieristica sia arrivata ad un punto di svolta, ma temo che, se verrà scelta ora la direzione sbagliata, si apriranno in futuro scenari foschi per il futuro della professione. Parlo delle stesse, plumbee nuvole che si stanno addensando sul cielo della sanità pubblica, nelle due Nazioni prima menzionate.

Vi spiego perché sono arrivato a questa conclusione, attraverso una sintetica comparazione delle incredibili similitudini presenti in alcuni punti salienti dell’intesa contrattuale italiana e del pay deal offer inglese.

1) Incrementi stipendiali inadeguati a bilanciare il maggior costo della vita.

Si tratta della prima e principale nota dolente dei due accordi. Gli infermieri italiani ed inglesi auspicavano infatti un aumento stipendiale che compensasse anni di raffreddamento o congelamento totale degli stipendi, adeguandoli almeno alla progressiva crescita del costo della vita. Non solo ciò non si è verificato, ma le proposte governative (meno di 90 euro in Italia, 110/120 sterline, mediamente, nel Regno Unito) si sono rivelate, già in termini assoluti, palesemente insufficienti a compensare la crescita dell’inflazione, quest’ultima peraltro superiore in terra d’Albione, tanto da aver raggiunto ormai la soglia del 3%.

Estremamente sospetti sono parsi, poi, i tentativi di gonfiare la portata degli importi nelle tabelle presentate all’opinione pubblica, includendo, in Italia, un aumento perequativo, destinato però a venire meno già dal 2019.

Il Departmenth of Health britannico (con la collaborazione dei sindacati) ha fatto anche peggio, non descrivendo mai gli aumenti in termini assoluti, ma mascherandoli dietro percentuali e strillando ai quattro venti incrementi minimi del 6.5%, spalmati però su tre anni, con una media annuale pari, approssimativamente, al 2%. Facendo riferimento a complessi meccanismi tabellari, è stata inoltre promessa, per alcune categorie, un crescita anche del 29%, presto smentita da successivi calcoli approfonditi, come si può evincere dalla tabella allegata, diffusa dalla rivista specialistica Nursing Notes, che rivela come nessuna categoria raggiunga tale incremento percentuale:

2) Il congelamento o la riduzione delle indennità.

L’inadeguatezza delle proposte di rinnovo contrattuale è emersa in tutta la sua drammaticità, anche in rapporto alle indennità. Chiunque abbia letto, con un minimo di attenzione, l’intesa preliminare sul contratto collettivo pubblico italiano o ne abbia seguito le vicende, sarà perfettamente consapevole del fatto che l’importo delle suddette indennità sia stato lasciato praticamente invariato dallo scorso millennio, figurando, perciò, del tutto anacronistico e perfino indecoroso, in relazione all’evoluzione del contesto economico e sociale.

Analogamente, in queste ore sta emergendo come, tra le pieghe del pay deal offer britannico, vi siano tagli alle unsociable hours, cioè alle indennità per i turni notturni e di fine settimana, nonché alla sick pay, ovvero all’indennità di malattia, in quest’ultimo caso solo per i neoassunti.  

3) Il “livellamento economico verso il basso” e la disincentivazione delle progressioni di carriera.

Si tratta di una componente dell’accordo che è passata inosservata nelle prime ore, ma è stata subito dopo portata al centro dell’attenzione, soprattutto dagli infermieri che occupano posizioni organizzative o che hanno acquisito competenze specialistiche ed avanzate, vale a dire le categorie più colpite da alcune novità presenti negli accordi collettivi.

In primo luogo, va constatato che tanto l’intesa italiana, quanto il pay deal inglese, livellano sostanzialmente i divari retributivi, prevedendo meccanismi di incremento che favoriscono le categorie (band, “fasce”, nel Regno Unito) contrattuali inferiori, in buona sostanza quelle formate da lavoratori privi di un titolo di laurea. Vengono penalizzati, pertanto, gli infermieri più esperti e con maggiore anzianità di servizio, nonché disincentivate la progressione di carriera e la formazione universitaria post-laurea.

I meccanismi retributivi proposti favoriscono inoltre nuovi reclutamenti, ma di certo non sono in grado, sull’altro versante, di contrastare i preoccupanti dati, che registrano un costante incremento dell’abbandono della professione nei due Paesi (oltre 3.000 infermieri, solo l’anno scorso, hanno chiesto la cancellazione dal registro NMC, superando le nuove richieste di iscrizione, per la prima volta nella storia).

Sibilline sono risultate poi, nella bozza nostrana, le disposizioni relative al conferimento degli incarichi, sia organizzativi che specialistici, in particolar modo quelle relative alla loro durata ed alle condizioni relative al rinnovo. Tanto sono risultate incerte nella loro formulazione, da suscitare vibranti reazioni non solo da parte dei coordinatori infermieristici, ma anche della stessa Fnopi, recentemente intervenuta sul tema.

Anche sotto questo aspetto, tuttavia, non se la passerebbero bene neppure i colleghi inglesi, se venisse approvata l’offerta contenuta nel pay deal.

Benché il Governo – e persino i sindacati – abbiano infatti garantito che la nuova disciplina favorirà le progressioni di carriera orizzontali e verticali (ovvero di band), per queste ultime lo scatto è legato al riconoscimento, da parte dell’infermiere dirigente (manager), del coinvolgimento dimostrato dal singolo infermiere, in percorsi formativi e di aggiornamento professionale.

Un requisito del tutto arbitrario, non legato alla volontà del dipendente (l’ospedale potrebbe avere restrizioni di budget e non essere in grado di garantire le stesse opportunità formative a tutti) e che socchiude la porta a forme di ricatto e mobbing più o meno velate.

4) L’aggressione ai diritti precostituiti.

In merito a questo tema, le parti datoriali e sindacali (quelle firmatarie) italiane si sono sicuramente distinte in rapporto alle omologhe britanniche, ma in negativo. Difatti, mentre il Department of Health ha ritirato, nelle ore precedenti all’annuncio dell’offerta, l'”offensiva” proposta di rinunciare ad un giorno di ferie (annual leave), dei 27 previsti per i dipendenti NHS britannici, finalizzata ad incrementare la produttività e quindi come contropartita per sbloccare i fondi (4.2 miliardi di sterline) necessari alla concessione degli incrementi stipendiali, l’intesa ministeriale italiana del 23 Febbraio affronta con linguaggio contorto molte complesse problematiche, come quella dello straordinario.

L’interpretazione di molti, non solo dei sindacati non firmatari, ma anche di diversi commentatori indipendenti, lascia supporre che lo svolgimento di lavoro extra venga infatti presentato come una proposta “che il lavoratore non può rifiutare”. Sono poi degne di menzione, in tale contesto, anche le criptiche previsioni, che paiono decisamente consentire deroghe alla normativa europea sui riposi tra turni di lavoro.

5) Il calderone dell’inquadramento contrattuale unitario, ovvero: tutti insieme appassionatamente.

Da più voci e da diverso tempo si leva, in Italia, la proposta che vede gli infermieri uscire dal comparto contrattuale dei lavoratori della sanità, prevedendo per loro una contrattazione separata, analogamente a quanto avviene per la categoria medica. Si tratta di una tesi che trova notevole rafforzamento, proprio guardando alla negativa esperienza inglese: anche Oltremanica, infatti, infermieri, ostetriche e paramedics, gli specialisti dell’emergenza – urgenza che operano sulle ambulanze (figura professionale non ancora inquadrata in Italia), sono inclusi nel grande calderone contrattuale dei dipendenti NHS, insieme a tecnici, portantini, cuochi e addetti alle pulizie, mentre i medici sono inquadrati in una categoria a sé stante.

Le previsioni peggiorative contenute nella contrattazione collettiva costituiscono solo uno, seppur significativo, dei molti indizi che lasciano propendere per una volontà politica di individuare, nella categoria infermieristica, l’agnello sacrificale sull’altare dello smantellamento del sistema sanitario pubblico nei due Paesi. Tale chiara strategia, lenta ma inesorabile, trova attuazione in primo luogo attraverso politiche di continui tagli ai servizi, ai posti letto ed al personale, ma anche per mezzo di altre due strategie più sotterranee, che spesso coinvolgono, appunto, gli infermieri:

  • la concessione, a soggetti privati, di fette via via sempre più grandi, del budget destinato alla sanità pubblica. Tale fenomeno è testimoniato, sia in Italia che in UK, da gare di appalto sempre più lucrative per la gestione di servizi sanitari, che vedono la partecipazione anche di colossi dell’imprenditoria; ad esempio, in terra britannica, la Virgin Care di Richard Branson, l’uomo più ricco del Paese.
  • La mortificazione delle professionalità acquisite attraverso la formazione universitaria. In effetti, mentre in Italia la nuova bozza contrattuale vede passare gli OSS dalla categoria B alla C, colmando il gap con le retribuzioni previste per gli infermieri, in Gran Bretagna il Secretary of State, Jeremy Hunt è da anni impegnato in una strategia che ormai, dai più, viene interpretata come un sistematico tentativo di livellamento verso il basso delle competenze infermieristiche.

Recenti novità, come l’introduzione del ruolo del nursing associate, a metà tra gli infermieri qualificati e gli healthcare assistants, tradizionali figure di supporto, hanno infatti operato una potente ed ampia estensione delle competenze infermieristiche ad operatori privi di una formazione universitaria, ma specificamente addestrati attraverso un percorso di studi biennale, che prevede una robusta formazione sul campo, privilegiata rispetto alla preparazione teorica.

Benché i nursing associates costituiranno un valido supporto, non si sono investite, d’altro canto, somme altrettanto ingenti per agevolare l’acquisizione di competenze specialistiche ed avanzate per i professionisti già impiegati, né, a livello universitario, per il reclutamento di nuovi infermieri.

Al contrario, dal 2016 il Governo Tory ha drasticamente tagliato le borse di studio (bursaries) previste per gli studenti, causando un crollo delle iscrizioni negli ultimi due anni ed aggravando, così, le prospettive già drammatiche sulle carenze organiche.

Un’ulteriore, presunta contraddizione (che tale non è, ma corrobora la tesi esposta) delle politiche ministeriali, proprio rispetto al taglio delle bursaries, sta nella pianificazione di milionari – e parzialmente fallimentari – piani di reclutamento di infermieri overseas, come quella che sta cercando di inserire, nel quadriennio 2016 – 2020, almeno 200 infermieri di nazionalità filippina in Irlanda del Nord, con un investimento quantificato di 10 milioni di sterline.

Ad oggi, il programma è riuscito a consentire l’iscrizione al Registro NMC solo di poche decine di professionisti, bloccati dall’ostico test previsto per ottenere l’indispensabile certificazione linguistica IELTS. Quanti studenti British si sarebbe riusciti a formare, destinando la stessa somma per coprire le loro borse di studio universitarie?

Tornando nello specifico del tema della contrattazione collettiva, stupisce l’abisso tra la reazione sindacale, mirata a salutare sia la bozza italiana, che l’offerta inglese, come “il miglior accordo possibile”, in base alle risorse economiche disponibili, e l’umorale, talora rabbiosa, risposta contraria di quella che una volta si definiva “la base”, in passato attiva nelle assemblee, oggi nelle piazze virtuali dei social media.

Mentre il divario, in Italia, può trovare spiegazione nell’ancora scarsa rappresentatività dei sindacati di categoria e nella presenza, tra le unioni confederali, di rappresentanti privi di una pregressa esperienza sul campo, devo ammettere, onestamente, che fatico a trovare una risposta all’evidente scollamento, dai lavoratori e dalla loro realtà, da parte dei sindacati inglesi, quasi tutti favorevoli alla proposta di Hunt.

Eppure, il Regno Unito vanta la “union” infermieristica più grande al mondo, l’RCN (Royal College of Nursing), forte di oltre 400.000 iscritti.

In tutti e due i Paesi, comunque, la comunità professionale sarà chiamata presto ad esprimere il proprio consenso o dissenso, rispetto all’azione dei suoi rappresentanti, in appuntamenti che si annunciano cruciali: il rinnovo delle RSU nello Stivale, il 18/19 Aprile, ed il ballot sul pay deal, ovvero il voto sulla proposta governativa, che, nel caso dell’RCN, si aprirà il 23 dello stesso mese.

C’è da ipotizzare che verrà lanciato un segnale fortissimo all’attuale rappresentanza sindacale e, di riflesso, a quella datoriale.

Un’ipotesi più da sperare che da temere, visto che gli infermieri britannici ed italiani stanno vivendo un cruciale momento di svolta e, se non adotteranno compatti la decisione di rigettare accordi ben più che deludenti, rischiano di vedere compromessa l’evoluzione della loro professione, per molti anni a venire.

Luigi D’Onofrio

Redazione Nurse Times

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