Infermiere nemo propheta in patria

Oramai è diventata normalità emigrare all’estero, le aspettative di impiego nel nostro paese sono chimere nascoste dentro concorsi farsa dove per un posto si presentano migliaia di colleghi.

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Non voglio nemmeno immaginare quale sia la responsabilità di chi deve tracciare una graduatoria di fronte a centinaia di questionari e colloqui: ammettiamolo, il sistema non funziona, non garantisce alcuna equità e meritocrazia.
Di fronte a questo incredibile migrare da un concorso all’altro comprendo la necessità, non solo di crearsi la giusta indipendenza a laurea acquisita, ma soprattutto di poter iniziare la propria carriera e mettere a frutto anni di sacrifici sia economici che di studio.
I nostri giovani infermieri, coloro che avrebbero dovuto immettere nuova linfa nelle vene di una professione che in Italia fatica a decollare come intellettuale ed autonoma, decidono di andarsene alla pari dei loro coetanei di ogni altra facoltà.
Se questo è un segnale di declino per la capacità di un Paese di garantirsi il ricambio generazionale, allora lo stiamo sottovalutando e soprattutto non lo stiamo governando: accettiamo passivamente che la crescita occupazionale pari allo zero sia in controtendenza rispetto alle richieste di poter esercitare in un Paese della Comunità Europea.
Sono mesi che i nostri “cervelli” infermieristici hanno cominciato la fuga, ma ultimamente oltre al bisogno di andarsene per lavorare sta avanzando ormai da mesi un fenomeno curioso, interessante e significativamente inquietante: sono gli altri Paesi che vengono in Italia a reclutare Infermieri.

Perché?

Perché li ritengono preparati, me apprezzano la professionalità e la competenza.
Ma come? All’estero ci stimano più di quanto succede in Italia? Ed è una stima interessata oppure riconosciuta nella realtà?

A giudicare dagli stipendi con cui vengono retribuiti gli infermieri in Inghilterra direi che alle parole si passa ai fatti, con uno stipendio decisamente migliore rispetto a quello Italiano (ma su questo non serve fare chissà quali sforzi).
In questo quadro, che definirei disarmante, anche i Collegi IPASVI hanno cominciato a dare servizi per chi decide di provare un’esperienza all’estero. Il rischio è che siano fraintese le intenzioni, come recentemente è successo con la polemica tra una neolaureata ed il Presidente del Collegio IPASVI della Provincia di Verona. Stando alla testimonianza della collega parrebbe che il Presidente abbia candidamente invitato, ammettendo l’assoluta impotenza, la giovane ad emigrare.
Ecco quello che ho pensato leggendo l’articolo proposto da Quotidiano Sanità sul servizio offerto dall’IPASVI di Chieti: stiamo forse invitando più o meno velatamente i nostri colleghi ad emigrare?
Non c’è ne accusa ne reato su quanto fa il Collegio di Chieti ma rimane probabilmente un’azione inopportuna. Il Collegio non è un ufficio di collocamento ne tantomeno un agenzia di selezione personale.

Comprendo il bisogno di dare “un aiuto”, comprendo anche la necessità di tutelare un eventuale iscritto all’IPASVI che voglia emigrare ma da qui a diventare, come dichiarato “punto di riferimento per l’Abruzzo e le altre Regioni Italiane” un po’ ne passa e soprattutto non mi è piaciuto affatto che gli Infermieri, o altri professionisti sanitari, debbano inviare i loro Curriculum Vitae direttamente ad un indirizzo mail IPASVI.
Sarebbe quanto meno necessario che il Presidente del Collegio provasse a dare qualche risposta in merito, spiegando bene le ragioni che hanno portato lui ed il Consiglio Direttivo a prendere una decisione cosi delicata.

Il messaggio che questa iniziativa rischia di far passare è che i Collegi IPASVI ormai non sono più in grado di fare pressioni sulle Regioni e sul Ministero per ottenere una diversa applicazione delle attuali normative che regolano la professioni.

Incute il timore che IPASVI non sia in grado di risollevare la nostra professione da una crisi di valori e di forza contrattuale ormai ridotta da continui blocchi contrattuali ed ancora incentrata dentro meccanismi novecenteschi che dovrebbero essere superati a fronte di una intellettualità mai riconosciuta.
Il messaggio è che qui “non c’è alcuna speranza”, che in Inghilterra è meglio: fai carriera, vieni riconosciuto e guadagni meglio. Ad essere caustici si potrebbe pensare che se riduciamo la presenza di Infermieri sul territorio aumenteremo le possibilità di chi non può permettersi di partire e magari di qualche decimale la disoccupazione.
Ovviamente chi scrive ha il dovere di forzare il dibattito intorno a quello che considero un serio problema: quale valore aggiunto i colleghi che se ne vanno porteranno alla nostra professione in italia?

Quale valore aggiunto potranno regalarci e di conseguenza aumentare il prestigio sociale della nostra professione?

Possibile che nessuno si preoccupi di governare questo processo? Esportiamo professionalità e competenza in cambio di cosa?
Tutto questo accade nonostante solo nel 2006 IPASVI stimava in 60 mila Infermieri la carenza su base nazionale.
Ogni studio in materia di politica sanitaria mette in evidenza la cronica mancanza di personale infermieristico a fronte di un fattore epidemiologico rilevante come quello dell’invecchiamento della società italiana.
Gli infermieri stranieri non trovano attraente il nostro paese, i circa 7 mila colleghi provengono da Romania, Polonia, Albania e lavorano quasi tutti nel settore privato, molti di loro all’interno del controverso mondo cooperativistico sul quale apriremo un focus quanto prima.
Dagli altri Paesi UE non vengono in Italia: le ragioni? Economicamente non siamo competitivi e la nostra lingua non è diffusamente studiata.
Insomma, siamo un fanalino di coda rispetto agli altri eppure tutti ci vogliono: nemo propheta in patria verrebbe da dire.

Piero Caramello

Redazione Nurse Times

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