Massimo Randolfi

I Supereroi lasciamoli ai cartoni animati

“Oggi dopo 11 anni di professione ho scelto di lavorare al reparto Covid dell’ospedale San Giuliano, l’ospedale della città in cui vivo. Mi dicono che il reparto è pieno e hanno bisogno di personale.

Devo fare il mio primo pomeriggio, un mix di sensazioni, sono emozionata perché amo imparare nuove procedure, nuovi protocolli, nuovi farmaci, vorrei saper fare sempre tutto… e poi voglio vedere sto cavolo di virus da vicino, voglio guardarlo in faccia! Allo stesso tempo un pochino di ansia mi pervade lungo il corpo; comincio a sentirla nelle gambe e tra i denti, proprio come quando devi dare un esame all’università.

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La mia coordinatrice del reparto di medicina mi accompagna mano nella mano come si accompagna un figlio al primo giorno di scuola, facendomi mille raccomandazioni e presentandomi ai colleghi, cerco “aiuto” negli occhi di qualche buon’anima che mi spieghi cosa e come fare visto che non ci ero mai stata in un reparto covid…; ecco finalmente individuo una collega disponibile che mi spiega e mi mostra come ‘vestirmi’, la guardo e ascolto con attenzione, non sia mai salto qualche passaggio, nel frattempo però sono agitata, possibile debba mai mettermi tutta sta roba addosso per assistere una persona?

Nemmeno sulla luna ci si barda così. Continuo la mia vestizione, questa parola mi sa tanto di cerimonia religiosa e in effetti anche il silenzio mentre ci si veste è religioso… primo paio di guanti, secondo paio e poi il terzo ma vai anche con il quarto, calzari sotto, calzari sopra, tuta spaziale ANTI VIRUS, mascherina, cuffietta, cappuccio e visiera.

Ok sono pronta, mi guardo allo specchio svariate volte prima di entrare per paura che ci sia qualche piccola zona scoperta e mi faccio guardare dalla collega gentile che mi ha aiutato, dice che è tutto ok posso andare; durante il percorso per arrivare alla porta d’ingresso sono sempre in quel silenzio religioso, penso a tante cose e penso a nulla, rallento il passo, mi sta venendo un po’ di paura quasi quasi torno indietro, ma apro la porta ed entro.

Cammino molto lentamente con le mani alzate a mo’ di chirurgo, il reparto apparentemente è un reparto di degenza come tutti gli altri ma i pazienti che vedo hanno dei caschi sulla testa che fino ad ora avevo visto solo in TV, ora finalmente li vedo dal vivo e cerco di capire come funzionano.

Nel frattempo la collega mi chiede di rispondere al campanello che suona ma io non lo sento, non sento quello che lei mi dice, senza leggere il labiale e con tutte quelle cose addosso è davvero difficile sentire. Per la seconda volta la collega mi chiede di rispondere al campanello perché lei è impegnata col medico ma io non lo sento non è colpa mia, mi sento in una bolla, non sento nulla che strano, mi sembra di camminare sulla luna e di essere sospesa nell’aria, l’unico rumore che sento é il battito accelerato del mio cuore, mi rimbomba forte nelle orecchie, forse è questo che copre tutti gli altri rumori… pian piano comincio a sentire sarà stato l’impatto iniziale, inizio a percepire i suoni e i rumori ma inizio anche a sentire i dolori alle gambe e alla schiena perché sto già all’impiedi da qualche ora e cammino in maniera strana per paura che la tuta si possa rompere… comincio anche a sentire il sudore scendere dietro la schiena e sul viso, sono completamente bagnata ma non posso asciugarmi, né toccarmi, non posso prendere aria o sedermi e nemmeno bere un goccio d’acqua, qualsiasi movimento sbagliato potrebbe farmi infettare.

Ricoveriamo G. un ragazzone del ’93, cavolo ha l’età di mia sorella, in preda all’ansia perché non riesce a respirare abbastanza e ha fame d’aria proprio come sta succedendo a me in questo momento, gli mettiamo subito il casco ma ha paura ed è agitato, ha ragione quel casco lo opprime, io cerco di tranquillizzarlo mi chiede aiuto ma non riesco a guardarlo negli occhi… lui cerca i miei in quel piccolo spazio tra il cappuccio e la mascherina ma purtroppo vado di fretta perché la signora M. nemmeno col casco riesce a stare meglio la sua saturazione precipita, allertiamo il rianimatore per intubarla per poi trasferirla…

Mi chiama il medico c’è la signora L. che sta male non respira, non c’è polso, é in arresto, iniziamo subito le manovre rianimatorie, io e la mia collega ci alterniamo più e più volte per il massaggio cardiaco perché fa caldissimo e siamo zuppe d’acqua, il medico ci dice di smettere… L. non ce l’ha fatta, ci danno 2 sacchi blu… il resto lo tengo per me, non ho il coraggio di scriverlo… Sono le 20:30 il mio turno é già finito da un po’ ma purtroppo qui non riesci a rispettare gli orari e ti trattieni più del dovuto.

Guardo dal vetro arrivare i colleghi a darmi il cambio, non vedevo l’ora, le gambe quasi non mi reggono più e ho finito la riserva delle energie per oggi… É giunto il momento della svestizione, ci siamo io e lo specchio e penso continuamente alle parole della mia migliore amica Alessia che mi ripete di stare attenta e di prendermi tutto il tempo necessario, lei di forza e coraggio ne ha da vendere, al diavolo la fretta, la macchina al garage che chiude alle 21, la fame e la sete, devo farlo con attenzione e meticolosità. Leggo la procedura scritta sul muro e continuo a guardarmi allo specchio mentre mi svesto… ogni minima distrazione potrebbe fregarmi.

Mi viene da piangere… quando finirà tutto questo? Quando potremmo essere finalmente liberi? Credo di essere stata attenta o almeno spero e così con le mani tremolanti, gli occhi lucidi e il cuore fuori dal petto finisco il mio primo turno nella terapia subintensiva Covid”.

Questa è la giornata di ogni infermiere, medico, operatore sanitario che lavora in un reparto Covid. Ho scritto queste righe dopo aver finito il turno con l’intento di far percepire solo minimamente quello che si prova quando improvvisamente un paziente non riesce a respirare, come ci si sente a stare lí dentro con la paura di non aver messo bene i guanti o che la mascherina non abbia aderito bene.

Questa maglia che indosso ho deciso di indossarla tutte le volte che dovró mettere “l’armatura”, come una seconda pelle e non per sentirmi un’eroina ma x trovare la forza di affrontare il mio turno pur sapendo che fino al prossimo tampone non vedrò e non abbraccerà i miei genitori e mia sorella per paura che possa contagiarli e se si continua di questo passo forse nemmeno il Natale potrò trascorrere con loro, che io e i miei colleghi siamo in pochi rispetto al numero di pazienti ricoverati e che ancora arriveranno, che i dispositivi di protezione non bastano mai, che lo stipendio che percepiamo è quasi un’offesa se non ridicolo se si pensa a quello che rischi ogni giorno, ogni minuto e se lo paragoni a quello di un politico, di un calciatore, di un presentatore di Sanremo…

A cosa serve e a cosa è servito essere chiamati eroi (a parole tra l’altro) se a tratti ci manca anche il coraggio di lavorare?! I supereroi lasciamoli ai bambini e ai cartoni animati! Noi siamo INFERMIERI! Ho scelto io di fare questo lavoro da ben 11 anni, l’ho scelto per vocazione, per passione, per amore di chi mi sta di fronte…

Non chiedo nessuna medaglia al valore, nessun riconoscimento e nemmeno un misero euro in più sullo stipendio, ma pretendo rispetto per la mia professione, pretendo che i nostri diritti siano difesi, che le nostre richieste siano prese in considerazione, che i contratti di lavoro vengano riguardati… Siamo stanchi ma come dice il grande Liga “Se tu ti permetti di pensare che il meglio deve ancora venire, non è detto che capiterà, ma intanto il tuo presente grazie a quel pensiero sarà più degno di essere vissuto”.

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#stopcovid #nurse #infermieri #noisiamopronti

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