Massimo Randolfi

Disturbo bipolare: comportamenti violenti concentrati nelle fasi acute

Uno studio dell’IRCCS Ospedale San Raffaele smentisce uno dei pregiudizi più diffusi sul tema. Gli episodi di aggressività, inoltre, sono spesso correlati ad abuso di alcol o di sostanze stupefacenti.

A più di quarant’anni dalla Legge Basaglia, che ha permesso all’Italia di essere uno dei primi paesi in Europa e nel mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici, la malattia mentale rappresenta ancora uno dei tabù nella nostra cultura, oggetto di numerosi pregiudizi e stigma sociale. Tra questi c’è l’idea, ampiamente diffusa nella popolazione generale, che il disturbo bipolare sia associato a comportamenti violenti.

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Uno studio condotto dai medici e ricercatori dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e pubblicato su Journal of Psycopatology smentisce questo pregiudizio, mostrando come i rari episodi di aggressività nei pazienti bipolari siano prevalentemente concentrati nelle fasi acute di malattia e, nella quasi totalità dei casi, siano correlati a un abuso di alcol o di sostanze stupefacenti. Lo studio, coordinato dalle psichiatre Raffaella Zanardi e Cristina Colombo, professoressa ordinaria presso l’Università Vita-Salute San Raffaele e direttrice del Centro disturbi dell’umore dell’Ospedale San Raffaele Turro, mette a frutto la grande expertise del centro che conta oltre 7mila visite ambulatoriali e 650 ricoveri all’anno.

Che cos’è il disturbo bipolare – Il disturbo bipolare, che colpisce nel mondo all’incirca una-due persone su cento, è un disturbo cronico ad andamento periodico ed episodico, caratterizzato da alterazioni dell’umore che vanno da un umore depresso – contraddistinto da sensazione di tristezza, vuoto, disperazione, mancanza di energia e/o interesse per le attività abituali – ad un umore elevato, rappresentato da una sensazione di benessere, euforia ed esaltazione, accompagnata da autostima esagerata. Al centro dello spettro si colloca la condizione cosiddetta di eutimia, vale a dire un umore nei limiti della norma. A seconda dello stato in cui si trova il paziente, nonché dell’intensità dei sintomi, si possono descrivere tre diversi tipi di episodi: maniacale, depressivo maggiore e misto.

Lo studio del San Raffaele – Nello studio, i ricercatori hanno preso in considerazione 151 soggetti per un periodo di 12 mesi, focalizzando l’attenzione sia alle fasi acute di malattia sia ai periodi di benessere e cercando possibili correlazioni tra diverse co-diagnosi psichiatriche e aspetti specifici del trattamento, come la continuità e l’adesione alle cure. I comportamenti aggressivi presi in considerazione sono stati: irritabilità, aggressività verbale, aggressività contro oggetti e aggressività verso le persone.

Afferma la dottoressa Raffaella Zanardi, prima autrice dello studio: “Abbiamo deciso di analizzare in modo innovativo il concetto di aggressività considerandone diverse sfaccettature e dividendo i comportamenti indubbiamente violenti verso sé e verso gli altri, da aspetti come irritabilità e agitazione che, pur non essendo comportamenti propriamente violenti, allo stesso modo contribuiscono a mantenere lo stigma sociale nei confronti dei pazienti psichiatrici”

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I risultati dello studio: la relazione tra disturbo bipolare e aggressività – Il primo dato emerso dallo studio riguarda il fatto che gli episodi di aggressività sono risultati paragonabili o inferiori alla quasi totalità di quelli registrati dai precedenti studi pubblicati sull’argomento. Stratificando il risultato per il tipo di comportamento aggressivo, è emerso come solo l’1,32% dei pazienti aveva mostrato atteggiamenti violenti verso persone, mentre negli altri casi è stata registrata violenza verso oggetti o episodi di violenza verbale.

Non solo. I ricercatori hanno osservato una drastica riduzione dei comportamenti violenti durante i lunghi periodi di benessere (dall’11,92% al 2,64%), raggiungendo in quelle fasi la stessa frequenza registrata nella popolazione generale. Continua la dottoressa Zanardi: “Abbiamo osservato come la quasi totalità degli episodi aggressivi verificatisi nei periodi di benessere fosse correlato alla presenza di una co-diagnosi psichiatrica: disturbi di personalità, disturbo da uso di alcol o abuso di sostanze”.

Considerando invece le fasi acute di malattia, è emerso anche in questo caso come la presenza di co-diagnosi, in particolare disturbo da uso di alcol o sostanze, fosse il più grande fattore di rischio per comportamenti aggressivi: non solo ne aumenta la prevalenza, ma modifica anche il rapporto tra i tipi di manifestazioni aggressive, riducendo proporzionalmente i casi irritabilità ed agitazione psicomotoria, per lasciar spazio ad episodi di violenza verbale e fisica verso oggetti o verso persone.

“È stato interessante poter osservare come i sintomi tipici delle fasi maniacali, come agitazione psicomotoria ed irritabilità, spesso stigmatizzati proprio perché ricondotti ad atti violenti, si sono rivelati connessi ad episodi di violenza solo in una netta minoranza dei casi”, afferma la professoressa Cristina Colombo, primario del Centro disturbi dell’umore e ordinario di Psichiatria all’Università Vita-Salute San Raffaele.

Un altro dato importante emerso riguarda invece i pazienti che avevano una maggiore aderenza alle visite psichiatriche e psicologiche: questo gruppo di pazienti era correlato a percentuali di comportamenti aggressivi significativamente inferiori rispetto ai soggetti meno collaborativi.

Continua la professoressa: “Resta ancora da capire se la compliance alle visite possa costituire un fattore protettivo verso agiti aggressivi, o viceversa, chi ha comportamenti violenti ha tassi di abbandono più elevati. Siamo speranzosi che i nostri risultati possano aiutare a demolire lo stigma secondo cui la diagnosi psichiatrica equivale a violenza, e che la violenza possa in questo modo essere giustificata da una malattia”.

Redazione Nurse Times

Fonte: PharmaStar

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