Disturbi specifici dell’apprendimento: non sempre gli educatori sono preparati

Nel 2017 i casi di dsa sono stati 254mila, in aumento rispetto ai 168mila del 2005.

Nulla sembra cambiato. Luca scherza e gioca con i compagni. Ma le sue abilità di lettura e scrittura non si sviluppano come negli altri bambini. Luca non è né pigro né stupido, è dislessico. Dislessia, disgrafia, disortografia e discalculia sono disturbi specifici dell’apprendimento (dsa) che riguardano chi, per ragioni funzionali e in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali o intellettivi, fa fatica ad apprendere specifiche abilità, come lettura, scrittura e calcolo. Tutti compiti che di norma, con l’esercizio, si eseguono in modo quasi automatico. Si chiamano “specifici” perché non intaccano affatto intelligenza e abilità cognitive, quali memoria e attenzione.

I dsa appartengono ai disturbi del neurosviluppo. Hanno quindi un’origine biologica, sono innati e alla base del loro manifestarsi c’è una complessa interazione di fattori genetici, epigenetici e ambientali, oggi allo studio dei ricercatori. Secondo il ministero dell’Istruzione, solo nel 2017 i casi di dsa sono stati 254mila, in aumento rispetto ai 168mila del 2005. Sono in molti a ritenere, tuttavia, che la crescita rifletta non tanto un’impennata nell’incidenza, che si mantiene intorno al 4%, ma «una maggiore conoscenza e consapevolezza della natura di questi disturbi, mentre in passato le difficoltà di apprendimento venivano attribuite ad altri fattori». Lo spiega Luisa Girelli, neuropsicologa dello sviluppo dell’Università di Milano Bicocca. Non solo. «La costituzione di un sistema normativo di tutela – aggiunge – ha alzato l’allerta di insegnanti e genitori».

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Inoltre non è raro che la diagnosi di dsa diventi l’unico modo per aiutare un bambino che non sta al passo, anche se ciò accade per ragioni diverse da un disturbo dell’apprendimento. Per chi ha un dsa, infatti, la legge 170 del 2010 prevede piani didattici personalizzati e strumenti compensativi e dispensativi. Tante sono le ragioni di una difficoltà, e quindi – questo è il primo consiglio per gli adulti – è un errore sottovalutare gli aspetti emotivi, motivazionali e relazionali. «A volte gli stessi insegnanti sono poco consapevoli dell’influenza che le loro idee e i loro atteggiamenti hanno sull’apprendimento degli allievi, che ne percepiscono insicurezze, disagi e aspettative, con evidenti ripercussioni sulle prestazioni», dice Girelli.

Le differenze individuali, poi, sono marcate anche nello sviluppo delle capacità cognitive. Quindi – e questo è un altro consiglio – «andrebbe trovata una giusta misura tra il rispettare i tempi di ogni bambino e l’evitare un intervento tardivo»

. Rischio che può essere ridotto al minimo grazie agli insegnanti preparati a riconoscere i segnali precoci di uno sviluppo non corretto. Non bisogna dimenticare, però, che «la fatica di un bambino con dsa, in termini di frustrazione e senso di impotenza, ha un costo che si ripercuote sulle altre dimensioni della vita, come quelle affettive e relazionali». Infine ecco il consiglio forse più importante per un genitore in difficoltà: «Si devono valutare le discrepanze tra gli sforzi del figlio e i risultati ottenuti: se l’impegno è massimo in termini di attenzione e di buona volontà e il contesto scolastico è positivo, la persistenza delle scarse prestazioni va approfondita da uno specialista».

Quando, poi, il problema di apprendimento interessa la funzione motoria si parla di disturbi dello sviluppo della coordinazione motoria, a volte erroneamente identificati con il termine “disprassia”. Anche in questo caso, come nei casi di lettura, scrittura e calcolo, i disturbi non sono attribuibili a una patologia neurologica né a un ritardo intellettivo. Spiega ancora Girelli: «Riguardano l’esecuzione di attività quotidiane che richiedono specifiche abilità di coordinazione, come varcare la soglia di casa o calciare un pallone, e possono associarsi a difficoltà nella produzione di azioni intenzionali, come afferrare una tazza o allacciarsi le scarpe, le “prassie”, che hanno origine là dove il gesto da compiere viene pianificato e ideato. La severità è variabile, anche in base alla parte del corpo coinvolta. Per i bambini “solo” impacciati e lenti possono essere sufficienti interventi di potenziamento delle abilità nella quotidianità, oltre alla promozione di attività ricreative che favoriscano lo sviluppo fisico e l’autostima. Se invece il disturbo interessa l’area della bocca o quella degli occhi, il bimbo può faticare a parlare o a leggere».

In questi casi, in quanto portatore di un bisogno educativo speciale (“bes”), il bambino può avere diritto a un piano di studio personalizzato. Può accadere, quindi, che mamma e papa debbano fare i conti con una situazione inattesa, magari in contrasto con l’idea che avevano del proprio figlio. «Le aspettative sono dovute soprattutto a una società in cui tende a prevalere l’aspetto competitivo e prestazionale». La conoscenza e l’attenzione alle specificità del bambino dovrebbero invece prevalere sull’apprensione: «Fatiche e affanni nell’apprendimento, a volte, sono epifenomeni della situazione di pressione costante in cui vivono bambini e ragazzi».

Redazione Nurse Times

Fonte: La Stampa

 

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