Declino demografico: l’Italia non è un Paese per bambini

Mai così poche nascite dall’unità. Persi 124mila abitanti solo nell’ultimo anno.

L’Italia è un Paese che stenta a crescere dal punto di vista economico ed è in costante decrescita demografica. Secondo l’ultimo bilancio demografico nazionale pubblicato dall’Istat, nel 2018 c’erano 400.000 abitanti in meno rispetto al 2015, di cui 124.000 “persi” soltanto nel 2018. I decessi e le uscite per emigrazione non sono state compensate del tutto dalle nascite e dalle immigrazioni. La natalità, infatti, continua il suo trend alla diminuzione.

Nel 2018 si è raggiunto il minimo storico dall’Unità d’Italia, con solo 439.747 bambini iscritti all’anagrafe per nascita. Se non ci fosse stata un po’ di immigrazione e di acquisizione di cittadinanza italiana da parte dei cittadini stranieri, il calo della popolazione residente complessiva sarebbe stato di circa un milione e trecentomila persone. La perdita di popolazione, infatti, è interamente dovuta alla componente italiana: sono gli italiani che, essendo mediamente più vecchi, non solo se ne vanno più spesso per morte, ma hanno tassi di natalità sempre più bassi, in un processo che rischia di diventare irreversibile.

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Da una generazione all’altra diminuisce il numero dei potenziali genitori, in particolare delle potenziali madri. E queste trovano crescenti ostacoli nel dare corso al desiderio di maternità. Il mercato del lavoro ancora spesso le discrimina e considera la maternità un handicap. I servizi educativi e di cura per la prima infanzia accessibili e di buona qualità sono insufficienti, in alcune regioni pressoché assenti, così come le scuole a tempo pieno. Permangono forti asimmetrie tra uomini e donne nella divisione del lavoro e delle responsabilità famigliari. I trasferimenti monetari per il costo dei figli sono frammentati e inefficienti.

Insieme alla precarietà dei rapporti di lavoro, che colpisce soprattutto giovani, donne e uomini, quindi alla insicurezza economica, queste difficoltà riducono le scelte di fecondità, comprimendo ulteriormente il tasso di natalità. Si aggiunga che anche l’apporto dato dalle donne straniere alla natalità, importante soprattutto nelle regioni del Centro-Nord dove è maggiormente concentrata la popolazione straniera, negli ultimi anni si è ridotto. Vi è stato un progressivo allineamento dei comportamenti delle straniere a quelli delle italiane.

Ma è anche diminuito l’ingresso in Italia di donne straniere, probabilmente a causa del rallentamento del fenomeno dei ricongiungimenti famigliari, che negli anni scorsi aveva fatto sì che ci fossero più donne che uomini che si iscrivevano all’anagrafe provenendo dall’estero. Oggi sono tornate a prevalere le iscrizioni anagrafiche da parte maschile, ancorché con un ritmo molto meno intenso che negli anni passati.

A fronte di un rallentamento delle immigrazioni, c’è stata una ripresa dell’emigrazione verso l’estero. Si stima che negli ultimi anni siano emigrate, in modo più o meno temporaneo, circa 500.000 persone, anche se non tutte si sono cancellate dall’anagrafe. Tra queste ci sono “nuovi italiani”, ovvero stranieri che sono tornati al loro Paese d’origine o sono andati in un altro Paese, dopo aver acquisito la cittadinanza italiana. Ci sono pensionati allettati da Paesi con il costo della vita più basso e che offrono un sistema di tassazione favorevole a chi sposta lì la propria residenza (sottraendo all’Italia parte della base fiscale).

Ma ci sono anche molti giovani, spesso ad alta qualificazione, che non trovano in Italia opportunità professionali adeguate e portano altrove le proprie capacità, incluse quelle riproduttive. Una popolazione più piccola di per sé potrebbe non costituire un problema per la messa a punto di strategie di sviluppo sostenibile da ogni punto di vista: ambientale, fìnanziario, dell’equità e dell’inclusione. Può diventare un problema, e forse lo è già, come suggerisce l’accostamento del declino demografico con la difficoltà della crescita, se questa popolazione ha una composizione squilibrata verso le età anziane, con le loro resistenze, bisogni, priorità.

Non si tratta solo dell’enorme macigno della spesa pensionistica, che grava sulle spalle delle generazioni più giovani e dello squilibrio nella spesa sanitaria. Se la costruzione di un contesto amichevole alle generazioni più giovani, autoctone e straniere, allo sviluppo e valorizzazione delle loro capacità, alle loro scelte di fecondità, non entra nell’agenda collettiva, salvo rituali auspici per un aumento della fecondità e simbolici riconoscimenti ai “giovani in quanto giovani”, si rischia non la decrescita, tanto meno felice, ma l’implosione.

Redazione Nurse Times

Fonte: la Repubblica

 

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