Coronavirus: una “Mela” al giorno…

Rilanciamo la testimonianza postata su Facebook un paio di settimane fa da Carmela, infermiera in servizio all’ospedale “Cotugno” di Napoli.

“È più o meno un mese che lavoro al Cotugno e che insieme ai miei colleghi assisto le persone affette da Covid-19. Ci bardiamo dalla testa ai piedi e talvolta, quando entro nelle camere dai pazienti, dico scherzosamente: ‘Indovina chi c’è qui sotto?!’. Non mi permetto con tutti, lo faccio quando penso di esserci entrata un po’ piu in confidenza per averci parlato al telefono o esserci visti, si fa per dire, entrando in camera. Qualcuno penserà: ‘Ma che vuole questa? È seria?’. Oppure: ‘Che tipo, così conciata chi ti vede!’. Be’, so che parto con una domanda difficile, come se non bastasse il contorno, e forse anche stupida, ma credo serva più a me che a loro per rompere il ghiaccio e per ‘accorciare le distanze nei limiti’, cose già non semplici in tempi ‘di pace’, figuriamoci adesso. Dicevo, è una domanda difficile perché la mia voce, potere della mascherina, non può somigliare di certo a quella che sentono al telefono quando chiamo e gli dico: ‘Salve, sono Carmela (Mela) l’infermiera di reparto…’. Non gli somiglia per niente e non solo per la mascherina che la camuffa, ma anche per la miriade di pensieri e di emozioni che le danno un tono e un suono diversi e che si accavallano quando entro in quelle stanze, chiudendo la porta alle mie spalle e… sbam! Eh, sì, sono in stanza e ho appena bucato una bolla enorme, ci sono dentro e non percepisco più il tempo, non sento nulla di tutto quello che accade fuori. Sembra di essere in un’altra dimensione, di essere atterrata su un altro pianeta. La bocca e la gola diventano un po’ più secche, berrei volentieri, e un prurito sul volto mi infastidisce proprio nel momento meno opportuno, non posso placarlo. Il rumore del mio respiro costante si sente bello forte, meglio distrarmi e non pensarci per non farne aumentare ancora di più la frequenza, ed è accompagnato dai rumori plastici della tuta che struscia su se stessa a ogni piccolo movimento o passo e dalle parole ovattate scambiate con il paziente che sembrano come messe sottovuoto. Con gli occhiali protettivi, che si appannano sempre un po’ di più a ogni respiro e parola, e con il visore, che scherma ulteriormente tutto il volto: pure gli occhi, specchio dell’anima, sono difficili da decifrare e riconoscere, anche se sorridono con qualche timore. E allora come faccio a far capire chi si protegge sotto tutto sto ‘sto casino? C’è un modo! Esiste un modo per concludere questo stupido indovinello. Mi giro di spalle e mostro il mio nome segnato sulla tuta. Infatti, prima di entrare nelle stanze, se c’è tempo, tra colleghi ci scriviamo a vicenda il nome sul retro delle tute, talvolta accompagnato da qualche scritta scherzosa, per riconoscerci tra noi e per identificarci con i pazienti. I nostri nomi, segnati con un pennerello, sono l’ultimo accessorio che indossiamo. La vestizione è completa, mi dico: ‘Ok, sono pronta, vado!’. Vado, portando sulle spalle non solo un nome, ma la responsabilità per la tuta che indosso con attenzione, per ciò che faccio con impegno e per ciò che sono con orgoglio. Vado alla ricerca di un gol nel cuore e nella vita delle persone che troveranno in me un compagno con cui vincere la loro partita, quella partita che è anche nostra!”. Redazione Nurse Times
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