Coronavirus, “Siamo tutti soldati in guerra: non molliamo”

Riceviamo e volentieri pubblichiamo le riflessioni del collega Giovanni Nucera.

Nessuno escluso, tutti chiamati in trincea, infermieri, medici, oss, operatori sanitari, professionisti della salute, tutti insieme uniti nella stessa battaglia. Capita spesso di fare fatica a riconoscersi durante il turno di lavoro, ma non per chissà quale motivo; semplicemente perché siamo avvolti tutti quanti dalla stessa imbracatura, che tenta di proteggerci da quel maledetto virus chiamato coronavirus. Riusciamo a riconoscerci grazie a una semplice cosa: il modo di fare. Quello, nonostante i mille strati che possono avvolgerci, non ci farà confondere mai con gli altri. Siamo tutti semplici soldati, chiamati a combattere questa stupida guerra. Sì, guerra, perchè questa pandemia può essere considerata tale, una guerra che non ha risparmiato alcuna regione, alcuna zona del mondo. E la colpa è solo nostra, del cittadino cocciuto che ha iniziato a collaborare quando ormai era troppo tardi, quando ormai il Covid-19 aveva già invaso i polmoni. Siamo tutti soldati, allo stesso modo. Non esiste alcun grado di qualifica in questo momento. Esistono solamente un doppio camice, una cuffia, un paio di occhiali, una visiera, dei tripli paia di guanti, dei calzari, delle doppie mascherine, che fanno di noi dei robot da guerra, dei robot che stanno lottando per distruggere tutto ciò. Quelle maledette mascherine che, giorno dopo giorno, lacerano il nostro viso. Ci lasciano un segno che, per la prima mezz’ora dopo il turno di lavoro, ci identifica dal resto della massa. Quelle maledette i cui elastici ci piagano il volto e quel maledetto sostegno posto al centro ci decubita il naso.
Le mani, che dire di loro? Turni infiniti in cui si ritrovano avvolte dai guanti, quei guanti che poi ci fanno ritrovare con esse doloranti e screpolate. Arrivi a ogni fine turno e la stanchezza non diviene solo fisica: inizia a prevalere anche quella mentale, la peggiore, che ti lascia pensare, che ti fa riflettere alle migliaia di vittime che ad oggi si ritrovano a essere avvolte da un semplice cellophane nero, accantonati tutti insieme in un’unica camera, salone, quel che è, con un talloncino addosso che li identifica, come fossero scatole contenenti i giochi d’infanzia. Nulla si poteva evitare perché, si sa, il mondo gira. E insieme al mondo gira anche la gente. Però molte cose si potevano evitare, per ridurre il contagio. Solamente adesso, tutti noi soldati, robot, macchine da guerra, veniamo considerati eroi, ma bisogna ricordare che siamo gli stessi di ieri, quelli che fino a ieri non erano mai considerati, semplicemente perché svolgevano il lavoro della loro vita, quello che hanno scelto per passione, quelli che da sempre sono i protagonisti in prima linea della sanità italiana. Adesso troviamo striscioni di ringraziamento, la gente che alle 21 si affaccia ai balconi per applaudire, file al supermercato che, appena mostri il tuo badge, superi in un batter d’occhio. Tutto ciò ti gratifica, ti fa sentire onorato di quel che stai facendo, ti fa capire che stai lottando contro un mostro. Però siamo sempre noi, quelli che fino a ieri venivano aggrediti, vessati, denigrati, ingiuriati…
Tutto ciò, da un certo punto di vista, è alquanto ridicolo. Fino a ieri la nostra professione era svalutata e svenduta. Basti pensare che c’è chi corre dietro un pallone e guadagna i milioni, e chi, come me e come molti miei conoscenti, coetanei, si trova costretto ad abbandonare il proprio tetto, la propria famiglia, i propri affetti, e si ritrova in una città che neanche conosce, dove non ci sarà il pranzo di Natale in famiglia, dove non ci sarà lo scambio dei regali, dove non ci sarà la Pasqua in serenità, dove spegnerai le candeline di compleanno da solo. Tutto ciò per andare a lavorare, per realizzarsi, anche se il guadagno non compenserà mai la salute persa e i sacrifici compiuti. Tanto lavoro, mille responsabilità, mille i rischi, ai quali siamo esposti per uno stipendio che non rispecchia minimamente quello che facciamo. Non dimentichiamo che la nostra professione non è neanche considerata tra quelle usuranti. Per fortuna, tra un turno e l’altro, tra una procedura e l’altra, troviamo il modo di non perdere mai l’euforia che ci caratterizza. Non chiediamo grandi cose, non chiediamo i milioni. Chiediamo solamente il vostro contributo, che non è economico. Si tratta di responsabilità, che si può dimostrare rimanendo ognuno nelle proprie case affinché tutto ciò possa finire e possa tornare a splendere la serenità del mondo. Adesso non bisogna mollare la presa. Adesso siamo arrivati alla fine della prima fase: non molliamo, dobbiamo esser prudenti. Il peggio sembra esser passato, ma non dobbiamo essere noi stessi a riportarlo in vita. Distanze, presidi come mascherine e guanti: non abbandoniamoli. Manteniamo ancora per un po’ le distanze, e insieme sconfiggeremo questo mostro. Da uno dei tanti soldati in guerra. Giovanni Nucera Aggiornamenti in tempo reale sull’epidemia in Italia Aiutateci ad aiutarvi
 
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