Coronavirus, quanto dobbiamo preoccuparci della variante indiana?

I numeri del Pese asiatico spaventano, ma bando ai facili allarmismi. La parola agli esperti.

Adesso è la variante indiana del coronavirus (B.1.617) a spaventare il mondo. Scoperta il 5 ottobre nel Maharashtra, lo Stato dove si trova Mumbai, presenta due mutazioni già note della proteina Spike, denominete E484Q e L452R, ma è la prima volta che compaiono entrambe in un unico ceppo.

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Nel timore che possa rappresentare un pericolo anche per gli altri Paesi il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha firmato un’ordinanza che vieta l’ingresso in Italia a chi negli ultimi 14 giorni è stato in India. Gli italiani potranno rientrare solo con tampone in partenza e all’arrivo e hanno l’obbligo di quarantena. “I nostri scienziati sono al lavoro per studiare la variante indiana. Non possiamo abbassare la guardia“, ha spiegato il ministro.

In India i numeri sono spaventosi: 17 milioni di contagi totali e 192mila morti. Ogni giorno i casi sono più di 300mila e i decessi ben oltre i 2mila. Considerando però che l’India ha 1 miliardo e 400 milioni di abitanti, la percentuale di morti è inferiore a quella che abbiamo in Italia (con 2-300 morti al giorno per 60 milioni di abitanti), pur essendo stata vaccinata una piccola parte della popolazione locale (130 milioni di dosi somministrate, ma solo 13 milioni di persone hanno ricevuto anche il richiamo).

Secondo gli esperti, per il momento, non è il caso di creare allarmisimi, non essendoci evidenze che questa nuova variante sia più infettiva o capace di sfuggire ai vaccini. Ciò che sta accadendo in India è dovuto infatti all’impossibilità di varare misure di contentimento come in Europa. Ad oggi non ci sono studi conclusivi che indichino il livello di trasmissibilità e letalità, ma possiamo presumere che, al pari della variante inglese, quella indiana abbia una capacità di diffusione piuttosto elevata. Il fatto che sia stata individuata in India, inoltre, non significa che lì abbia preso il sopravvento.

“La maggiore trasmissibilità potrebbe essere confermata dal veloce aumento di casi in India, mentre è per ora contenuta la sua presenza in Europa – sostierne Massimo Ciccozzi, ordinario di Statistica medica ed Epidemiologia molecolare al Campus Bio-Medico di Roma –. Si sta valutando anche la risposta ai vaccini. Dai primi dati emergerebbe una lieve, minore efficacia dei vaccini disponibili su questa variante. Sembrerebbe calare leggermente la risposta degli anticorpi neutralizzanti stimolati dalla vaccinazione, ma non dei linfociti T. Questa, comunque, è una buona notizia perché indicherebbe una certa efficacia dei vaccini in uso”.

Si allinea Carlo Federico Perno, direttore dell’Unità di Microbiologia all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma: “La prevalenza della B.1.617 in India è al momento inferiore al 10 percento e in altre aree del mondo si vedono casi sporadici. La situazione in India è drammatica, ma non a causa della variante. Il motivo è che, nel momento in cui i contagi sono temporaneamente calati, il virus è stato lasciato libero di correre, togliendo tutte le restrizioni. Quanto sta accadendo, dunque, era totalmente atteso. Sottolineo che stiamo parlando di una variante e non di un ceppo di virus nato a seguito della vaccinazione per tentare di aggirarla”.

Tra i primi Paesi a importare la nuova variante, la Svizzera, dove un caso è stato segnalato il 24 aprile. “Il primo caso della variante indiana del Covid-19 è stato scoperto in Svizzera”, si legge in un tweet dell’Ufficio federale della sanità pubblica, aggiungendo che la variante del virus è stata trovata in una persona in transito in uno degli aeroporti del Paese. Una notizia che mette in allarme anche il resto d’Europa e l’Italia.

Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova, getta acqua sul fuoco: “Bisogna finirla di fare la rincorsa alle varianti, e bisogna finirla con questa comunicazione terroristica. Le varianti ci saranno sempre, e più le cerchi, più le trovi. Probabilmente ce n’è una in ogni Paese, e forse addirittura una in ogni città perché il virus muta, cambia. Non è altro che la sua evoluzione naturale. E’ giusto monitorare, e fare molta attenzione e questo lo lasciamo fare agli esperti nei laboratori, ma le varianti non possono diventare chiacchiere da bar o discorsi da social”.

Aggiunge Bassetti: “Al momento sappiamo che i vaccini coprono tutte le varianti e non c’è un solo caso in cui sia dimostrato che il vaccino non ha funzionato su una variante. Per chi fa l’infettivologo da anni non è dunque una sorpresa sapere che un virus muta e cambia, così come fanno i batteri, i funghi o i protozoi. Basti pensare che il virus dell’influenza cambia ogni anno, e all’interno dell’anno anche più volte, ma perché questo non desta allarme?”.

Dell’importanza di isolare questa variante ha parlato invece Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università di Milano: “La variante indiana di Sars-Cov-2 richiede massima attenzione e una capacità di individuarla per capire e approfondire le caratteristiche che presenta, cioè quanto può essere più contagiosa e se scappa un po’ dai vaccini. Purtroppo le varianti ci terranno compagnia anche più avanti, soprattutto quando il virus si troverà in difficoltà con le vaccinazioni, continuando per questo a sperimentare mutazioni. E per questo bisognerà fare richiami con vaccini aggiornati in base alle varianti”

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Molti Paesi, comunque, stanno correndo ai ripari. Il primo ministro britannico Boris Johnson ha deciso, d’intesa con la controparte indiana, di cancellare la visita ufficiale in India. Nel Regno Unito sono stati tracciati un centinaio di casi d’importazione e l’India è stata inserita fra le nazioni della “lista rossa” (che comprende una cinquantina di Paesi), verso le quali è vietato viaggiare e dalle quali si può rimpatriare solo sottoponendosi, oltre che a una serie di test, a una quarantena obbligatoria di dieci giorni in hotel (a proprie spese).

La diffusione è comunque limitata: si contano alcune centinaio di casi in Europa e alcune migliaia nel mondo. A ogni modo diversi Paesi, tra cui Germania, Canada (oltre a Regno Unito e Italia) hanno attuato una stretta nei collegamenti aerei con l’India. In Israele sono stati identificati otto casi del ceppo B.1.617. Il direttore generale del ministero della Salute, Hezi Levy, ha affermato che, secondo le prime impressioni, il vaccino Pfizer è almeno parzialmente efficace contro la variante.

Ma i vaccini potrebbero risultare meno efficaci? E’ presto per dirlo, come ribadisce ha detto il ministro Speranza: “I vaccini ci proteggono dalla stragrande maggioranza delle varianti. Poi ci sono studi in corso e ancora gli approfondimenti non ci danno una certezza assoluta. Dove si riscontrano elementi di maggiore debolezza nella capacità di contrasto alle varianti, le compagnie farmaceutiche e gli scienziati sono già al lavoro per avere nuovi vaccini. È una sfida tra il virus che muta e la comunità scientifica. La vinceremo, ma abbiamo bisogno di gradualità. La scelta di stringere gli arrivi dall’India è dovuta a un atteggiamento di grande precauzione”.

Concorda Franco Locatelli, coordinatore del Comitato tecnico scientifico: “La situazione è grave perché il numero di contagi in India è straordinariamente elevato e c’è il dubbio che la variante indiana possa avere maggior potere contagiante, come è stato per quella inglese. Invece sarei cauto sulla possibilità che B.1.617 ‘buchi’ i vaccini: non ci sono prove in merito. Non creiamo allarmismi. Quanto sta accadendo in India dimostra che la pandemia va affrontata a livello globale, con i Paesi più fortunati economicamente che devono aiutare chi è in difficoltà, prima di tutto per ragioni etiche”.

In Italia, per ora, non è attivo un programma strutturato di sequenziamento del virus. “L’annunciato consorzio per il sequenziamento – conferma dice Carlo Federico Perno – non è ancora partito, e ad oggi si fa solo una mappa dell’esistente, presentata nel report dell’Istituto Superiore di Sanità, che elenca e aggiorna le varianti presenti in Italia. Il sequenziamento massivo permetterebbe invece di capire se ne stanno nascendo di nuove. Paradossalmente in India questa attività è stata potenziata moltissimo e coordinata dal Governo, con un programma nazionale. In Italia al momento non abbiamo nulla di strutturato e finanziato in tal senso”.

Ma cosa potrebbe accadere con la riapertura delle attività? Ancora Perno: “Il virus è ancora presente e uccide, ma è chiaro che il nostro Paese è in forte sofferenza economica. Aggiungo che solo 10-12 milioni di italiani sono stati vaccinati con una o due dosi. In questo scenario serve una sintesi politica intelligente, che concili il rischio biologico con quello di default sociale. Ma si tratta di una decisione politica, non spetta a noi medici. Guardiamo però i dati: in Gran Bretagna e Israele, dove è stato vaccinato il 60% della popolazione, le infezioni, le ospedalizzazioni e i decessi sono crollati. Noi siamo più indietro, ma nell’arco di tre mesi dovremmo riuscire a vaccinare almeno altri 15 milioni di persone, arrivando al 50% della popolazione, se le forniture saranno regolari”.

Non solo. “Le cifre ufficiali – prosegue Perno – dicono che in Italia ci sono 5 milioni di guariti (nella maggior parte dei casi immuni a reinfezioni), ma, dato che nella prima ondata si testavano solo i sintomatici, possiamo immaginare che i guariti siano ben di più, nell’ordine di 8-10 milioni”. E sul caldo: “Non è un elemento assoluto di diminuzione dei contagi, ma contribuisce a migliorare la situazione insieme alla restrizioni, coprifuoco incluso”.

È poi molto importante mantenere le precauzioni negli ambienti interni (mascherine, distanziamento, igiene delle mani). “Seguendo queste avvertenze – conclude Perno –, credo che ci siano le condizioni per un’estate abbastanza tranquilla. Se invece si lascia il virus libero di circolare, come è accaduto in India, la situazione sfugge di mano, con il rischio che si possano creare ulteriori varianti e magari anche dei ceppi vaccine-escape, ma è improbabile che questo accada prima delle vaccinazioni. Quanto alle mascherine, aggiungo che la Ffp2 offre più garanzie, ma non è facile tenerla a lungo, soprattutto con il caldo, con il conseguente rischio di togliersela o di usarla male. Meglio la chirurgica indossata correttamente e per tutto il tempo necessario”.

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