Coronavirus, infermiera italiana a Londra: “Qui il personale sanitario è meno protetto”.

Rilanciamo l’intervista rilasciata a HuffPost da una collega che lavora in Inghilterra.

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“Italiani, svegliatevi!”. Era questo l’appello lanciato a inizio aprile da Linda Pasqui, un’italiana residente a Londra che, dopo aver contratto il coronavirus, si era vista negare assistenza medica e la possibilità di essere ricoverata in uno degli ospedali della capitale britannica. D’altro canto, invece, ci sono le autorità sanitarie inglesi, che assicurano come la situazione sia sotto controllo e le strutture ospedaliere siano in grado di fronteggiare l’epidemia da Covid-19. Ma qual è la verità? Lo abbiamo chiesto direttamente a chi negli ospedali ci lavora tutti i giorni, sempre a contatto con i contagiati.

Sara (nome di fantasia) è un’infermiera e ricercatrice italiana da anni impiegata in una struttura della zona a nord di Londra. Attualmente si occupa di trial clinici sui pazienti risultati infetti, per cercare di studiare un vaccino contro il coronavirus. Ci ha chiesto di non rivelare il suo vero nome per una ragione precisa: “L’ospedale dove lavoro ha espressamente proibito al suo personale di non rilasciare interviste alla stampa. E lo stanno facendo tutti gli ospedali del Paese perché, secondo il mio punto di vista, cercano di nascondere quale sia la vera situazione all’interno delle strutture ospedaliere, diversa da quella che vogliono far credere”.

 Stando a quanto riportano i media più accreditati, la situazione negli ospedali inglesi sembra essere ancora gestibile, con posti letto e macchinari per le cure intensive disponibili. Ma la BBC ha fatto sapere che in alcune città della Gran Bretagna le strutture ospedaliere non consentirebbero più il ricovero di pazienti dai 70 anni in su, in caso presentino i sintomi del coronavirus.

Com’è la situazione nel centro in cui lavori?
“Il nostro ospedale ha cominciato a fare discriminazioni in tal senso, con i pazienti al di sopra dei 65 anni. Da noi è ancora possibile venir ricoverati se si hanno più di 65 anni, ma se si chiama l’ambulanza o il numero verde 111 (dedicato all’emergenza covid-19, ndr), dicendo di avere tutti di sintomi del virus, quella telefonata non viene considerata come alta priorità. Quindi, tanto per intenderci, se hai meno di 65 anni l’ambulanza può arrivare in 10 minuti. Se sei più grande può mettercene 50…”.

Qual è il senso di questa direttiva?
“È difficile dare una risposta univoca, ma di sicuro non dipende dalla disponibilità dei posti letto. Nella nostra struttura, infatti, ci sono ancora circa 443 posti liberi (mentre la situazione in rianimazione è ben diversa). In generale, quindi, c’è spazio per accogliere i malati. La spiegazione che mi dò è che la vita dei più anziani sembra avere meno valore agli occhi di chi gestisce le strutture ospedaliere, quindi meglio curare e dare la priorità ai giovani”.

Dicevi che nel reparto di rianimazione la disponibilità di posti letto è inferiore…
“Sì, attualmente ci sono solamente 20 posti liberi. E questo potrebbe essere un problema, perché abbiamo notato che le condizioni dei pazienti affetti da coronavirus peggiorano rapidamente. In molti sono stati costretti a venir trasferiti in rianimazione nel giro di pochi giorni”.

La politica dell’Nhs (il National Health Service, ovvero sistema sanitario pubblico del Regno Unito) riguardo all’epidemia del covid-19 è cambiata nel tempo. A marzo, ad esempio, veniva imposto l’autoisolamento in casa a chiunque ne presentasse i sintomi, sottolineando che non fosse necessario né sottoporsi al test né recarsi in ospedale, a meno che, dopo 7 giorni, le condizioni di salute non fossero ancora migliorate. Ora sembra esserci un atteggiamento più cosciente della gravità della situazione, è così?
“Agli inizi di marzo, quando è scoppiata l’emergenza in Gran Bretagna, chiamando il numero verde 111 l’unica domanda che veniva posta ai possibili contagiati era: “Siete stati all’estero?” Se la risposta era negativa, allora non veniva presa alcuna misura aggiuntiva: il malato non veniva sottoposto al tampone per il coronavirus né a cure specifiche. Poi la direttiva è cambiata e si è iniziato a curare e a testare specificatamente per il covid-19 chiunque solo chi dichiarava di avere tutti e 3 i seguenti sintomi: difficoltà respiratoria, tosse e febbre alta. Ora lo screening è maggiore che in passato, si fanno più tamponi”.

Si tratta di misure sufficienti a contrastare l’epidemia? Nel Regno Unito non sembra si sia ancora raggiunto il picco di contagi. 


“Assolutamente no”. 

Cosa andrebbe fatto?
“Innanzitutto, bisognerebbe aumentare – e di molto – lo screening sulla popolazione. Inoltre, bisognerebbe sottoporre al tampone il personale sanitario che è quotidianamente a contatto coi contagiati. Fino a pochissimi giorni fa, a dottori e infermieri non veniva fatto alcun test. Poi si dovrebbero isolare sin da subito le persone che presentano i sintomi da coronavirus e ricoverare i malati: i posti letto ci sono, ma le autorità sanitarie impongono a chi è potenzialmente contagiato (e a chi vive sotto lo stesso tetto) di auto-isolarsi in casa per 14 giorni. So di tantissimi infermieri e dottori che sono stati costretti a restare a casa per due settimane senza sapere se effettivamente affetti o meno da coronavirus, perché non sono stati sottoposti al tampone”.

È diventato virale il video diffuso a fine marzo da Linda Pasqui, un’italiana residente a Londra e risultata positiva al covid-19. Tra le altre cose, nel filmato accusava che il personale sanitario in Inghilterra non dispone di alcuna mascherina. Com’è la tua situazione attuale?
“Quasi la stessa. L’unica mascherina che viene data al personale sanitario per proteggersi – anche per entrare in diretto contatto con pazienti che sono risultati positivi al coronavirus – è quella chirurgica, che non serve a niente. Servirebbero i modelli FFP2 e FFP3, riservati solo a chi lavora nella cosiddetta “area critica”. Ho chiesto informazioni a tre miei colleghi che operano in Italia (sia al Nord, che al Centro e al Sud) riguardo a come viene protetto il personale sanitario lì e tutti mi hanno confermato di indossare la mascherina FFP3, se costretti a trattare pazienti positivi al tampone. In Italia sono più avanti che in Gran Bretagna da questo punto di vista. Nel Regno Unito non siamo tutelati”.

 Hai paura di essere infettata?
“Moltissima. Inoltre, mio marito è asmatico: ho il terrore di poter trasmettergli il virus”.

Benché la Gran Bretagna sia in lockdown dal 23 marzo, non si è ancora arrivati a una restrizione della mobilità personale così forte come in Italia: ad esempio, non c’è bisogno di un’autocertificazione per spostarsi e, in generale, si vede ancora molta gente per la strada. Cosa ne pensi?
“Il Governo inglese ha iniziato ad agire in ritardo. Io sono stata in Italia poco prima che venisse approvato il lockdown e mi sono sentita molto più sicura lì. Nel Regno Unito, al momento, le regole imposte non sono altrettanto restrittive e parte della cittadinanza non le rispetta: c’è troppa gente in giro e spesso non viene rispettata la distanza di sicurezza di 2 metri. Penso proprio che i tempi di ripresa dalla pandemia saranno più lunghi che in Italia”.

Tu ti stai occupando in particolare di trial clinici su pazienti infetti, affinché si possa arrivare a una cura contro il virus. Stando alla tua esperienza medica e alle informazioni in tuo possesso, quanto ci vorrà prima che la popolazione possa essere sottoposta a una vaccinazione contro il covid-19?
“Non è prevedibile, anche perché c’è la possibilità di una mutazione del virus, esattamente come accade con quello della comune influenza. In tal caso bisognerebbe cambiare la formula del vaccino di continuo”.

Parlando più in generale, quali sono le principali differenze tra il sistema sanitario inglese e quello italiano?
“Innanzitutto, che quello inglese è più ricco rispetto al nostro. Questo vuol dire che il personale medico dispone di più attrezzature (e migliori) rispetto ai colleghi italiani (mascherine a parte…). Inoltre, in Italia per gli infermieri non c’è possibilità di carriera, non esistono nemmeno ruoli specifici. Detto questo, in Italia siamo in grado di lavorare meglio con i pochi mezzi che abbiamo e c’è un livello di attenzione e di pulizia maggiore. Tanto per fare un esempio, io ho lavorato in neurochirurgia in entrambi i Paesi e il numero di infezioni postoperatorie è molto più alto nel Regno Unito. Se dovessi scegliere dove farmi curare, sceglierei sicuramente l’Italia”.

Redazione Nurse Times

Fonte: Huffington Post

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