Coronavirus, come interpretare i dati in arrivo dalla Cina?

Rilanciamo un approfondimento di Medical Facts su quanto sta succedendo nel Paese asiatico, dove la conta dei casi confermati suscita qualche dubbio.

Dalla Cina arrivavano piccoli segnali che inducono a un flebilissimo ottimismo: il numero dei casi di coronavirus sembra crescere con meno intensità negli ultimi giorni. Purtroppo, però, esiste la possibilità che il calo derivi da una sconcertante decisione della Cina, certificata da una direttiva risalente allo scorso 7 febbraio: considerare casi confermati solo quelli che risultano positivi al test e hanno sintomi. In altre parole, chi ha il test positivo, ma non ha sintomi, non rientra nel conto. Parliamoci chiaro, contare i casi in questo modo ha un nome ben preciso: barare. Considerando anche questa possibilità, cerchiamo di fare il punto della situazione a circa un mese dall’inizio dell’allarme.

I casi in Cina: letalità in aumento? Riflettiamo su un semplice dato. Alle 19 di ieri, lunedì 10 febbraio, in Cina erano stati registrati 40.196 casi di infezione da nuovo coronavirus, con un totale di 909 morti (la totalità dei decessi meno il caso delle Filippine, l’unica morte al di fuori della Cina). È dal rapporto di questi due dati che deriva il valore di mortalità (anche se sarebbe più corretto parlare di “tasso di letalità”) compreso fra il 2% e il 3%, di cui avete spesso sentito parlare negli ultimi giorni. 909 morti su 40.196 equivale, infatti, a una percentuale di poco superiore al 2% (2,26%). Ricordiamo che questo dato è solo una stima. Potrebbe essere più basso, come molti pensano, in quanto non abbiamo idea del reale numero degli infetti, ma potrebbe anche essere destinato a crescere, come ipotizza uno dei possibili scenari disegnati dagli epidemiologi dell’Imperial College of London nel loro ultimo report. Semplicemente perché – non c’è bisogno di essere esperti per capirlo – prima vengono diagnosticati i casi e, solo in un secondo momento (dopo 2-3 settimane), avvengono i decessi.

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Differenze tra Hubei e altre province cinesi Nonostante tutti i limiti evidenziati, ci sono però aspetti che meritano attenzione. Proviamo, per esempio, a scomporre geograficamente i dati cinesi dividendo i casi e i decessi avvenuti nella provincia epicentro dell’epidemia (lo Hubei, di cui l’ormai nota a tutti città di Wuhan è il capoluogo), da quelli avvenuti nel resto della Cina. Nel solo Hubei sono stati registrati 29.631 casi gravati, purtroppo da ben 871 morti. Se calcoliamo la mortalità (ripetiamo, sarebbe meglio parlare di letalità, ma cerchiamo di rendere più comprensibile il discorso) nel solo Hubei, otteniamo una valore molto vicino al 3% (2,94%). Cosa succede, invece, nel resto della Cina? Si badi bene: nel resto della Cina, non nel resto del mondo. In tutte le altre province cinesi abbiamo un totale di 10.565 casi con un totale di 38 morti. Da questo si ottiene un valore di mortalità (leggasi letalità) molto più basso, pari allo 0,36%. In sintesi, sembra che nel resto della Cina si muoia molto meno per l’infezione rispetto allo Hubei.

Interpretazione di questi casi Come interpretare questi dati? Le spiegazioni possibili sono varie 

e non distinguibili alla luce delle evidenze finora disponibili. Una possibilità è legata al fatto che nello Hubei, come detto sopra, i casi siano molti di più e, quindi, la letalità molto più bassa. Cosa possibile, ma che, in ogni caso, vale anche per il resto della Cina. Altra possibilità è che lo Hubei abbia risentito della prima ondata di contagi quando una minore preparazione ha fatto salire drammaticamente il numero dei morti. Anche questa è un’interpretazione possibile, ma che, col passare dei giorni, sembra impattare sempre meno sull’analisi che proponiamo. In altre parole, l’allarme oggi è esteso all’intera Cina, ma, ciononostante, si continua a morire in assoluto e in proporzione più nello Hubei. C’è, infine, una terza possibile interpretazione del dato. È ormai accertato che la prima ondata di contagi sia partita dallo Hubei. In altre parole, nello Hubei è sicuramente maggiore la percentuale di soggetti che è stata contagiata da un animale non ancora identificato (vi ricordate il mercato di Wuhan?), o da altri soggetti che erano stati appena infettati da esso. Cosa vuol dire questo? Una probabilità – ancora teorica, si badi bene – è che il virus stia pian piano adattandosi all’uomo, diventando così meno pericoloso. Non abbiamo ancora dati molecolari che lo confermano, ma chi conosce un po’ di virologia non può non considerare anche quest’ipotesi. Vedremo nei prossimi giorni.

Monitorare le guarigioni Ripetiamo: non abbiamo ancora tutti i dati per confermare quanto detto, ma quelle appena esposte sono interpretazioni possibili che ci fanno guardare con un minimo di fiducia in più all’immediato futuro. C’è, infine, un ultimo dato che sembra andare in questa direzione. Stanno aumentando le segnalazioni di soggetti che hanno superato l’infezione. Che sono guariti, insomma. Ecco, se consideriamo questo dato, le percentuali fra lo Hubei e il resto della Cina si invertono rispetto ai decessi. Nello Hubei, infatti, sono stati registrati 1.854 guarigioni pari a circa il 6% (6,26%) dei casi totali. Nel resto della Cina, invece, sono state segnalate 1.679 guarigioni pari a circa il 16% (15,89%) del totale.

In altre parole, nel resto della Cina non solo si muore meno che nello Hubei, ma si guarisce anche di più. Altro segno che potrebbe far pensare a un possibile adattamento virale, o quantomeno – e non è poco – che una migliore gestione dell’emergenza ne permette di contrastare meglio le complicanze più gravi dell’infezione. Attenzione, però, non sappiamo come le cose potranno cambiare, per esempio a seguito di una più corretta registrazione dei casi o di eventuali mutazioni che rendano più aggressivo il virus. Questa interpretazione positiva di come sta evolvendo l’epidemia deve quindi spingere ancora di più a non abbassare la guardia. La partita è ancora in corso e ce la stiamo giocando alla pari. Non molliamo proprio adesso. Sperando che in Cina non facciano i furbi.

Redazione Nurse Times

Fonte: Medical Facts  

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