Infermieri

Chi vuol essere infermiere? Intervista a Barbara Mangiacavalli (Fnopi)

Le iscrizioni ai corsi di laurea in Infermieristica sono in calo. Sorge il dubbio che i giovani si stiano allontanando dalla professione di infermiere. Perché? Ne abbiamo parlato con la presidente Fnopi, Barbara Mangiacavalli.

Presidente, quanto e perché la preoccupa il calo di iscrizioni alle facoltà di Infermieristica?

Preoccupa me, ma deve preoccupare l’Italia intera, perché il nostro Paese è atteso una lunga stagione assistenziale e non avremo professionisti infermieri in numero sufficiente per far fronte all’inverno demografico che ci aspetta. Entro un tempo brevissimo la variazione demografica della popolazione porta a un aumento ormai noto di quella anziana, con tutte le necessità di assistenza che questo comporta, soprattutto a livello domiciliare.

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Vi è poi l’aumento delle cronicità: si stima che oggi siano oltre 22 milioni gli italiani che ne presentano almeno una (e 14 milioni con più di una), ma che tra circa cinque anni raggiungeranno i 25 milioni. E la crescita ovviamente non si arresterà, con tutti i bisogni di assistenza che questo comporta e che l’infermiere per primo può e deve soddisfare.

Infine l’organizzazione dei servizi. L’infermiere è un cardine essenziale per rendere efficienti le strutture del Ssn. Lo dimostra e lo ha dimostrato in ogni occasione, ma la valorizzazione della professione stenta ancora a decollare in molte zone del Paese, rendendo ancora più evidente la frammentazione che dal punto di vista dell’assistenza sanitaria caratterizza l’Italia.

Da tutti questi fattori risulta evidente che il calo di iscrizioni alla facoltà di Infermieristica crea allarme: senza infermieri, l’Italia non avrà più un Ssn degno di questo nome. Non saremo più in grado di garantire salute a tutti. È una prospettiva concreta, reale, che comporta perdite economiche, sociali, oltre che un restringimento dei diritti civili.

Quali sono i fattori negativi che allontanano i giovani dalla professione di infermiere?

Diciamo subito che la professione di infermiere piace e attrae i giovani. E questo lo vediamo soprattutto nelle regioni meridionali e nelle isole. I giovani non scappano dalla professione, ma dalla scarsa qualità delle organizzazioni in cui l’infermiere lavora, da un mancato sviluppo di carriera e da un corrispettivo economico non in linea con la responsabilità professionale, a fronte di un impegnativo percorso universitario, che molti studenti non sono più disposti a svolgere fuori sede.

Sono tanti gli elementi indispensabili per rendere attrattiva una qualsiasi professione. Servono subito interventi strutturali per il riconoscimento della competenza, dell’autonomia, della responsabilità e quindi, conseguentemente, di uno sviluppo di carriera non tanto sulla parte gestionale e organizzativa, quanto su un esercizio di competenze specialistiche che i nostri giovani colleghi hanno.

Sul piano economico, fermo restando che tra le nostre proposte immediate vi è quella dell’aumento del 200% dell’indennità di specificità infermieristica, a pesare è una mancata progressione economica degna di questo nome, che si possa legare in modo chiaro e diretto all’aumento delle competenze e dell’esperienza. Oggi un infermiere entra nel sistema pubblico e ne esce con uno stipendio di fatto identico. Questa stagnazione non è più tollerabile. 

Perché, secondo lei, la politica non investe nelle professioni sanitarie, e in particolare su quella infermieristica, che pure rappresenta un pilastro del Ssn (epidemia docet)?

L’idea di una sanità che non si basa più sull’acuzie, ma su un’assistenza articolata sul territorio, continua e più vicina ai luoghi di vita e di lavoro stenta a decollare, ed è ancora forte l’immagine dell’ospedale come luogo di cura. Lo è sicuramente, è chiaro, ma solo per quel che riguarda gli eventi acuti, perché ormai è chiaro che tutto il resto deve trovare risposte sul territorio, dove oggi c’è poco e, soprattutto, mancano gli infermieri.

È cambiato il modo di fare sanità, ma gli standard ancora no: gli ultrasessantacinquenni sono il 25% della popolazione e a loro, come alle altre categorie di cittadini, servono poche e puntuali prestazioni cliniche e lunghe stagioni assistenziali, che solo gli infermieri possono garantire. È necessario un cambio culturale, senza il quale non si riconoscerà mai la necessità di spostare attenzioni e risorse su ambiti diversi da quelli dove finora sono state concentrate. 

Quali sono le sue considerazioni sulla fuga di infermieri verso l’estero, dove si percepiscono stipendi molto più allettanti?

Abbiamo i laureati del terzo anno che vengono cercati dai Paesi che, insieme a noi, patiscono una carenza professionale importante. A questi colleghi stanno offrendo come stipendio settimanale l’equivalente di uno stipendio mensile italiano. Abbiamo bisogno di tenere nel nostro Paese i professionisti formati in Italia, perché ne stanno beneficiando altri Paesi.

Noi, intanto, continuiamo a rincorrere surrogati e a procedure tampone. È come se avessimo regalato competenze e formazione ad altri Paesi, e poi per i nostri cittadini ci accontentiamo di soluzioni tampone. Oggi ci sono quasi 30mila infermieri italiani all’estero per le scarse prospettive del nostro Paese (e la formazione di ognuno è costata in meda allo Stato circa 30mila euro), e ne continuiamo a perdere circa 3.000-3.500 ogni anno.

Al contempo rileviamo oltre 13mila infermieri stranieri in servizio, a vario titolo, sul territorio nazionale, senza iscrizione agli Ordini e senza i dovuti controlli sulla conoscenza della lingua (in virtù delle deroghe prevista da decreti emergenziali), che quindi lavorano in un contesto di totale insicurezza delle cure. Direi che la fase delle deroghe all’esercizio professionale istituita durante il periodo pandemico e quella delle soluzioni tampone sono fasi che si devono chiudere. È necessario valorizzare innanzitutto gli infermieri che hanno studiato e svolto il tirocinio in Italia, agendo su tutte le leve a disposizione per trattenerli nel nostro Servizio sanitario nazionale, scongiurando le fughe all’estero.

Occorre inoltre lavorare sulle radici profonde della disaffezione alla professione. Vale a dire, come già accennato: l’aspetto economico (gli stipendi degli infermieri italiani sono mediamente il 40% al di sotto della media degli altri Paesi europei) e l’aspetto organizzativo (è una professione che ha scarsi sviluppi di carriera e che soffre di modelli ancorati a logiche vecchie, non più attuabili nell’attuale complessità del sistema).

Tra le criticità della professione che “spaventano” i giovani non va ignorato il fenomeno delle aggressioni sul lavoro. Cosa si può fare per arginarlo?

La violenza sugli operatori della salute non colpisce solo la professione infermieristica, ma i nostri colleghi, proprio perché rappresentano la prima linea che accoglie e assiste i cittadini sia per quanto riguarda l’ospedale (triage) che il territorio (assistenza domiciliare), sono i più esposti al fenomeno: fino a 130mila casi l’anno, secondo lo studio Cease-it, condotto da otto università italiane su input della Federazione. Abbiamo visto, soprattutto in questi ultimi mesi, un’intensificazione dei controlli, anche con il ripristino dei posti di polizia negli ospedali. Bene, ma ovviamente, visto come e dove avvengono gli episodi di violenza, non basta. 

La prevenzione degli episodi di violenza a danno degli operatori sanitari richiede che l’organizzazione: identifichi i fattori di rischio per la sicurezza del personale e ponga in essere le strategie organizzative, strutturali e tecnologiche più opportune; diffonda una politica di tolleranza zero verso atti di violenza nei servizi sanitari; incoraggi il personale a segnalare prontamente gli episodi subiti e a suggerire le misure per ridurre o eliminare i rischi, e faciliti il coordinamento con le forze dell’ordine o altri oggetti che possano fornire un valido supporto per identificare le strategie per eliminare o attenuare la violenza nei servizi sanitari. 

Solo per fare alcuni esempi di azioni possibili, lo snellimento delle attese stressanti in pronto soccorso, con meccanismi di smistamento alternativi a bassa intensità e gestione infermieristica per ridurre la tensione e la reattività dei pazienti, anche grazie all’applicazione dei nuovi codici già previsti per la classificazione delle urgenze alla regolamentare l’uso dei social nei luoghi di lavoro e rispetto all’attività professionale per evitare commenti, furti di identità e proposte inappropriate (ne sono vittima circa il 12% dei professionisti coinvolti, che nel caso degli infermieri sono per il 77,42% donne).

Poi una maggiore formazione del personale nel riconoscere, identificare e controllare i comportamenti ostili e aggressivi, prevedendo anche appositi corsi Ecm alla predisposizione di un team addestrato a gestire situazioni critiche, in continuo contatto con le forze dell’ordine, soprattutto (ma non solo) nelle ore notturne, nelle accettazioni e in emergenza.

E ancora il riconoscimento dello status di pubblico ufficiale dei professionisti sanitari, ritenendolo strumento indispensabile per arginare le violenze all’inserimento della predisposizione delle opportune misure per la sicurezza degli operatori sanitari e per prevenire atti di violenza tra gli obiettivi individuali del direttore generale dell’azienda. Solo l’impegno comune può migliorare l’approccio al problema e assicurare un ambiente di lavoro sicuro.

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