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Assunto da una cooperativa in Italia, in UK Clinical Researcher di successo: la storia di Alessandro Borca

Alessandro Borca, infermiere originario di Vittorio Veneto, racconta la sua “fuga” dall’Italia.

Il professionista 36enne è oggi Clinical Researcher presso la University College of London. Dopo aver tentato la carriera nell’arma dei Carabinieri ed aver conseguito la laurea a Padova, ha conseguito un master in “Salute Mentale” a Trieste.

Riportiamo di seguito l’intervista in versione integrale rilasciata a “Il Gazzettino”.

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Quando ha deciso che l’Italia non faceva per lei?

«Ho lavorato per 4 anni in Italia come infermiere, ma ero assunto da una cooperativa e non guadagnavo abbastanza da vivere da solo. Dopo il master, che mi sono sudato tra ferie e riposi, e una pubblicazione scientifica, la mia frustrazione era troppa e ho deciso di costruirmi un futuro all’estero».

Quando ha deciso che l’Italia non faceva per lei?

«Ho lavorato per 4 anni in Italia come infermiere, ma ero assunto da una cooperativa e non guadagnavo abbastanza da vivere da solo. Dopo il master, che mi sono sudato tra ferie e riposi, e una pubblicazione scientifica, la mia frustrazione era troppa e ho deciso di costruirmi un futuro all’estero».

Quale la sua attività relativamente all’Hiv?

«Lavoro in studi internazionali multicentrici, cioè condotti in diversi Paesi in tutto il mondo, e che prevedono la fase 3 di sperimentazione, cioè su una larga scala di popolazione, su farmaci che non sono ancora in commercio. Stiamo, ad esempio, sperimentando “Long term injection” relativi a farmaci antiretrovirali; i pazienti coinvolti in questo studio ricevono un’iniezione intramuscolare mensile invece di assumere terapia orale giornaliera.

Entro il 2020 testeremo una terapia a lento rilascio attraverso un impianto sottocutaneo che basterà sostituire ogni 6 mesi e sperimenteremo uno dei nuovi vaccini per l’Hiv. Altri studi mirano a rilevare la minore tossicità e tollerabilità farmacologica. Abbiamo 37 studi in attivo ai quali stiamo lavorando».

Non si parla più molto di Hiv, è ancora una malattia diffusa?

«Purtroppo sì, sopratutto nell’Est Europa vi è un aumento delle infezioni dovuto sopratutto alla mancanza di test e campagne di prevenzione. Le nuove generazioni non hanno percezione di cosa ha rappresentato l’Hiv e conseguentemente l’Aids rispetto a chi ha vissuto gli anni ‘80».

Cosa è stato fatto negli ultimi anni? Le cure sono migliorate?

«Sono migliorate le cure ed è aumentata enormemente la qualità e l’aspettativa di vita dei pazienti. Se negli anni ‘80 le persone con Hiv assumevano fino a 18 pastiglie al giorno, ora si è passati a 3 o addirittura 1 sola pastiglia.

L’aspetto più importante è comunque questo: le persone che vivono con Hiv ma che seguono un regolare trattamento antiretrovirale, mantengono la carica virale al di sotto della soglia di rilevabilità e non possono più trasmettere il virus nemmeno per contatto diretto.

Per questo è fondamentale ora combattere lo stigma che ancora affligge questa popolazione e incoraggiare le persone a fare test e in caso di positività, iniziare un regolare trattamento. La campagna U=U (Undetectable = Untrasmittable) cerca di informare proprio su questo».

Cosa significa nuovi farmaci sperimentali?

«Farmaci che non sono ancora in commercio perchè devono passare la fase 3 di sperimentazione, cioè su una cospiqua parte di popolazione (migliaia di persone coinvolte)».

Cosa ha cambiato la Brexit?

«La Brexit ha fomentato quella forma mentis per cui si crede che mettendo delle barriere si può avere il controllo delle cose e delle persone. Purtroppo dopo la Brexit sono aumentati gli episodi di razzismo e intolleranza, anche in ospedale».

Qual è stata la cosa più bella che ha vissuto all’estero? E quella più difficile?

«La cosa più bella è il vedermi realizzato, la più brutta è stato essere trattato come un immigrato da pazienti che hanno rifiutato le mie cure perchè ero straniero».

Cosa le manca dell’Italia?

«Il Sole, le Dolomiti, il Cibo. E il mio cane Febo».

Cosa invece non le manca per nulla della sua Patria?

«L’incapacità politica e sociale di perseverare in un obbiettivo comune. E la trasparenza nelle cose».

È gratificante il lavoro che fa?

«Moltissimo. Se pensa che creo evidenze scientifiche e tangibili per cambiare la realtà di oggi e migliorarla: questo è il fulcro della ricerca scientifica».

Se si può chiedere, qual è il suo stipendio? E quale sarebbe se fosse rimasto in Italia?

«Si può chiedere ed è tutto su internet. Gli infermieri sono suddivisi in Band (Band 5,6,7…) e ad ogni Band corrisponde un range di salario. Per questo può variare molto la posizione professionale (definita attraverso le specializzazioni e le posizioni manageriali) e di conseguenza lo stipendio. Tutto è nero su bianco (e su internet).

Guadagno 35mila sterline all’anno come ricercatore in un range che varia da 34mila sterline e arriva a 41mila sterline.

Ogni anno vi è una progressione in base allo spine point (ossia agli scatti di anzianità ed esperienza acquisita). Oltre a questo, lavorando come Agency nurse in vari ospedali ho un introito che varia in base alla mia disponibilità turnistica.

Direi che non è male a 36 anni considerando che in cooperativa guadagnavo meno di quando lavoravo in fabbrica»

Simone Gussoni

Dott. Simone Gussoni

Il dott. Simone Gussoni è infermiere esperto in farmacovigilanza ed educazione sanitaria dal 2006. Autore del libro "Il Nursing Narrativo, nuovo approccio al paziente oncologico. Una testimonianza".

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