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Storia di ordinaria… infermieristica

Questa che raccontiamo è la storia di Alessia, una collega in prima linea contro l’ebola, in missione in Liberia, felice di poter offrire la propria professionalità al servizio dei più bisognosi.

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Quando Medici senza frontiere mi fa sapere che la mia prossima destinazione è Monrovia capitale della Liberia, nell’Africa Occidentale, il mio primo pensiero è “finalmente torno in missione”. Sono emozionata, eccitata per la partenza ormai prossima.
Felice, anche se Africa Occidentale significa Ebola. Anche se Ebola è un nome che richiama sofferenza, dolore, paura, ma soprattutto morte.
Sono un’infermiera che da anni si muove fra le più svariate malattie infettive, ma Ebola è un virus di cui si sa poco, troppo poco. Una febbre emorragica che non ti lascia scampo.
Eppure, finalmente, torno in missione. Torno nel paese dove la mia carriera in MSF ha avuto inizio, ma so che ci sarà un’altra Liberia ad aspettarmi, una Liberia colpita da quella parola che altro non è che sinonimo di terrore.

La partenza
Mancano due settimane alla partenza e io trascorro i miei giorni tra articoli scientifici, reportage, dati, qualsiasi cosa che mi dia qualche informazione in più sul nostro nuovo “nemico”.
I numeri che trovo e l’aspetto di questo contagio che sembra essere incontrollabile, di certo non invogliano a partire. Vengo a sapere da un collega appena rientrato che la situazione nel nostro centro di trattamento è disastrosa: la gente muore fuori dai cancelli perché non ci sono più posti disponibili. Ho paura, credo sia normale, ma la paura aiuta la sopravvivenza e l’amore che provo nel mio lavoro, nell’aiutare gli altri è più forte di qualsiasi cosa. E allora parto.

Monrovia
Il mio zaino è pieno di parmigiano, cioccolata, tarallucci, calzini, colori e blocchi di carta per i bambini ricoverati. Quando atterro a Monrovia sono le due del mattino, l’Africa dorme. Il giorno successivo raggiungo Elwa3, il più grande centro mai costruito per il trattamento dell’Ebola. Centoventi posti letto tutti occupati, altri 120 nuovi previsti fra qualche settimana. Per ora dobbiamo rimboccarci le maniche.
Nonostante sia un’infermiera qui il mio compito è quello di supervisionare lo staff liberiano che lavora e collabora con noi, fornire loro la formazione adeguata a una cura ottimale dei pazienti. Fra il marasma generale e le migliaia di persone che fanno girare gli ingranaggi di questa macchina cerco di orientarmi al meglio e fisso nella mia mente due concetti fondamentale: “Stay safe and wash your hands.”
Devo tenere ben presenti i miei limiti sia fisici che psicologici, tutti dobbiamo farlo qui, o rischiamo il contagio o il burn out. Ed è quando incontro Chimo che arriva il momento di sperimentare i miei, di limiti.

L’incontro con Chimo
Chimo è un orfano, uno dei tanti che l’Ebola ha “creato”. Lo abbiamo ricoverato nella zona di chi è stato confermato positivo al test per l’Ebola.
Indosso il tutone giallo, il cappuccio, due mascherine, due paia di guanti, il grembiule di plastica (molto pesante)e gli occhialoni, quelli simili a una maschera da sub; sto per entrare nella zona ad alto rischio di contagio insieme a un collega statunitense, a due medici e un’infermiera liberiani.
Scorro fra i pazienti più gravi, quelli in cui i sintomi più pesanti della malattia ormai sono manifesti. Chimo è fra questi.
Quando ci fermiamo davanti al suo letto dorme di un sonno inquieto, in cui il respiro è affannato e l’Ebola ormai alle porte.
Ci avviciniamo e lo chiamiamo per nome, vogliamo vedere se reagisce, ma Chimo non si muove. Con tutta la difficoltà che l’abbigliamento, le misure di sicurezza e il caldo equatoriale comportano, ci chiniamo su di lui e proviamo a farlo sedere sul suo lettino. Infastidito accenna una breve apertura delle palpebre. Quando ci vede si spaventa e si dimena, buon segno, ha ancora le energie per farlo. L’infermiera liberiana gli parla e lo tranquillizza.Chimo deve bere o altrimenti non ce la farà e il nostro obbiettivo è salvarlo. Ognuno di noi avrà il compito di dargli acqua e sali minerali, ogni giorno, in ogni istante possibile.
Ma la frustrazione è grande, perché il tempo scorre e Chimo non beve abbastanza. Non fa che peggiorare e forse non ce la farà. Continuo a ripetermi che è un bambino, un bambino indifeso e che la sua vita non dovrebbe essere questa.

Quando arriva la vita
Quando arriva Mohamed, 16 anni e la febbre già alta, Chimo dorme e non mangia. Sono entrambi dello stesso villaggio e noi abbiamo la speranza che uno possa aiutare l’altro.
E la nostra speranza viene ripagata con il tempo. Ora Chimo mangia, riesce a stare seduto, si fida di Mohamed che lo accudisce come un fratello. Il mio cuore si riempie di queste immagini.
Trascorre qualche giorno e Mohamed risulta negativo al secondo test, ma non se ne va senza Chimo. E Chimo lo segue. Impiega tutte le sue forze per guarire, e ce la fa. Quando entrambi lasciano il centro non siamo più un staff medico, ma una folla piena di gioia che guarda la vita allontanarsi dalla morte.

Fonte: www.unadonna.it

Redazione Nurse Times

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