Mancano infermieri, ma “non passa lo straniero”

Riceviamo e pubblichiamo le considerazioni di due colleghi/lettori.

Scriviamo questa lettera in riferimento ai numerosi articoli di quotidiani che citano le gravi carenze di personale sanitario, in particolare infermieri in grado di lavorare nelle Rsa, al fine di permettere agli anziani  una’assistenza dignitosa.

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Sembra che non tutti ammettano questa mancanza. E’ di una settimana fa l’affermazione di un alto funzionario del ministero della Salute, in risposta alla precisa domanda se vi fosse carenza di organico di infermieri in italia. La riposta è stata chiara: “Non è vero che nel nostro Paese mancano infermieri: da quanto riferiscono le associazioni di categoria, il numero degli infermieri italiani è più che sufficiente a coprire le esigenze sanitarie attuali. Tutt’al più nelle Rsa c’è bisogno di qualche operatore sanitario. Ma di stranieri non abbiamo bisogno”.

Questa risposta veniva data nel corso di una “prova attitudinale per il riconoscimento della qualifica di infermiere conseguita in Paesi non comunitari”, che si è tenuta il 13 ottobre scorso all’Università di Tor Vergata, Roma.

In quasi tutti gli altri Paesi europei (Germania, Spagna, Regno Unito, Olanda) il riconoscimento del titolo di infermiere professionale ottenuto all’estero è pressoché automatico. Viene richiesta soltanto, e giustamente, una competenza linguistica. E’ noto che nei Paesi non comunitari i corsi di studio per la formazione degli infermieri, tutti a livello universitario, sono della durata di quattro o cinque anni, con lunghi tirocini pratici e selezione molto pesante negli esami di abilitazione. Dunque accaparrarsi questo personale competente, motivato e preparato è considerato vantaggioso: vengono accettati gli immigrati di questo genere; rifiutati quelli privi di risorse.

In Italia, invece, vengono posti infiniti ostacoli e inutili vessazioni burocratiche proprio alle persone più qualificate, impedendo loro una integrazione lavorativa, oltremodo preziosa in questo periodo. Del resto lo stereotipo di immigrato che ha in mente l’italiano medio è quella del nero che ti chiede l’elemosina, non quella del professionista qualificato, capace ed esperto.

Dunque in Italia il riconoscimento del titolo professionale di infermiere conseguito all’estero viene subordinato “all’espletamento di una misura compensativa consistente in una prova attitudinale” (bisogna “compensare” non si sa cosa per mezzo di uno strumento che per definizione serve per altro fine: valutare). Da notare che i candidati, per essere ammessi alla prova, devono aver presentato preventivamente un’esaustiva documentazione, tradotta e autenticata riguardo il ciclo di studi effettuato, materie, tirocini, ecc. E questi devono essere stati giudicati dal ministero validi e comparabili col ciclo di studi in Scienze infermieristiche che si svolge in Italia.

Questa “misura compensativa”, pertanto, non mira a compensare alcunché: è un esame di carattere puramente teorico e consiste in uno scritto con domande a scelta multipla, che falcia già all’inizio oltre il 70% dei candidati, a cui seguono un paio di domande presentate in forma scritta su un bigliettino. Se il candidato non risponde esattamente a una di queste, viene cacciato via senza spiegazioni. Niente di pratico, niente di “attitudinale”. Nel recente svolgimento di uno di questi esami, il 13 ottobre scorso, sono stati riconosciuti soltanto tre degli 86 candidati che si erano presentati.

Ora, per spiegare una così alta percentuale di bocciature, si potrebbe ritenere che queste persone fossero quasi tutte incompetenti e ignoranti. Probabilmente questo è il pregiudizio che circola nell’ambiente dei funzionari del nostro ministero della Salute. Infatti anche negli scorsi anni l’esito di questa “prova attitudinale” era analogo: la percentuale di bocciatura è sempre stata clamorosamente alta, superiore al 95%.

Forse si può comprendere la severità di valutazione degli esaminatori se si tiene presente che l’ammissione a questo esame costa a ciascun candidato ben 300 euro e che i candidati non possono far altro che ritentarlo dopo sei mesi. Non conviene però al nostro Paese che si venga privati insensatamente dell’operato di persone competenti motivate, già inserite nel tessuto sociale del nostro Paese, in un momento in cui ai nostri anziani nelle Rsa mancano le cure, in cui si dichiarano “eroi” gli operatori sanitari disposti a stare accanto agli ammalati di Covid, situazione a rischio da cui molti italiani cercano di scappare. Negli altri Paesi europei questi operatori sono richiestissimi, da noi sono vessati.

Non so se queste modalità di selezione di operatori così importanti nel momento di massima diffusione del Covid-19 siano note al pubblico italiano. Nessuno ne parla, nessuno protesta. Intanto nelle Rsa i nostri anziani rimangono poco curati, seguiti male da personale affaticato da orari pesanti. Per carenza di personale vengono eliminate le visite dei famigliari, e i rapporti tra gli operatori e gli assistiti sono bruschi e frettolosi. Quando poi questi anziani si ammalano, vengono scaricati da un reparto all’altro come pacchi postali.

A titolo di esempio di una situazione tipica degli infermieri “stranieri”, cito quella di un infermiere filippino che conosco direttamente, bocciato alla cosiddetta “prova attitudinale” sostenuta a Roma il 13 ottobre scorso. Laureato in Scienze infermieristiche nel suo Paese di origine con voti altissimi (quattro anni di studi, più svariati tirocini, oltre a un esame di abilitazione estremamente selettivo), in Italia da nove anni, ha lavorato con compiti di di responsabilità infermieristica, in base al Decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, art. 13, (Deroga delle norme in materia di riconoscimento delle qualifiche professionali sanitarie).

Possedendo un buon livello di conoscenza della lingua italiana, nonché dell’informatica, era in grado di scrivere i report assistenziali, le schede paziente e le scale di valutazione in uso mediante documentazione informatizzata. Per essere precisa, elenco qui alcune delle procedure infermieristiche che questa persona ha praticato di recente in una Rsa lombarda, che le ha documentate:

– gestione della terapia orale/endovenosa e intramuscolare;
– gestione dell’ospite con nutrizione enterale tramite Peg, SNG e parenterale;
– gestione dell’ospite in ossigenoterapia;
– gestione dell’ospite portatore di urostomia;
– gestione di medicazioni semplici e complesse nell’ambito di lesioni da pressione e piede diabetico;
– gestione e sostituzione di catetere vescicale;
– assistenza all’ospite portatore di tracheostomia;
– utilizzo di scale di valutazione quali MNA, Braden, cadute, contenzione.

Questa esperienza, maturata in ambito Covid nella struttura lombarda con notevoli misure di protezione (tuta, mascherine, vari strati di guanti ecc.), è stata valutata zero dalla commissione esaminatrice, che lo ha respinto dopo un’unica domanda a cui non ha saputo rispondere. Di conseguenza lo ha privato della possibilità di lavorare in Italia in un ambito in cui è preparato e la qualità del suo lavoro è sempre stata apprezzata. Ma ha anche privato la sanità italiana di un operatore considerato capace e competente dai suoi datori di lavoro, che lo dichiarano tra l’altro “in grado di instaurare una comunicazione terapeutica infermiere-paziente.”

Tra poco tempo, ovviamente dopo anni di attesa, le leggi italiane daranno a questa persona la possibilità di ottenere la cittadinanza. Ma l’integrazione lavorativa, in relazione alle proprie competenze, quella no: l’esame “attitudinale” descritto sopra lo ha vietato.

Questa situazione non è eccezionale. Anzi, è condivisa da decine di operatori aventi alle spalle anni di studio ed esperienza, che a causa dell’assurdità di questa selezione vengono scartati dalla professione infermieristica allo stesso modo, in un momento storico in cui il bisogno di queste competenze è al massimo grado!

A questa persona, delusa e amareggiata, ho consigliato di chiedere il “reddito di cittadinanza”, se vuole restare nel nostro Paese. Ha tutti i diritti di richiederlo. Però mi domando se è vantaggioso per lo Stato italiano ricorrere a un espediente di tipo assistenziale, piuttosto che riconoscere e integrare persone fornite di queste competenze, come avviene nel resto dell’Europa,

Mi piacerebbe porre due questioni , che spero anche altri condividano, al ministro della Sanità, Roberto Speranza:

Ci si trova di fronte a professionisti già ben integrati nel tessuto sociale italiano, che hanno spesso fatto un percorso di studi di quattro, cinque o sei anni per ottenere la laurea nel loro Paese. La bocciatura del 98% di questi candidati nella fase finale di un lungo e costoso processo di riconoscimento del titolo di studio è la certificazione del fallimento del sistema di valutazione compiuto e gestito da ministero della Salute. E’ un fallimento che pagano prima di tutto quegli italiani più bisognosi di cure. Mi piacerebbe che prendesse atto di quanto avviene e ne rispondesse.

Gli amministratori che, mediante lo strumento della “prova attitudinale”, dovrebbero agire per il bene comune selezionando i più capaci agiscono invece solamente al fine di alimentare il loro narcisismo e il loro potere, sprecando preziose risorse.

È consapevole il ministro Speranza che quanto messo in atto dal ministero della Salute in materia del riconoscimento del titolo di infermiere è da ritenersi profondamente discriminatorio in relazione a quanto viene fatto nel resto d’Europa? A fronte del ripetersi di fatti (a mio parere gravi), chi è predisposto per valutare l’operato dei funzionari del ministero della Salute? Forse gli stessi funzionari?

Rosetta Bolletti
Marcello Gonano

Redazione Nurse Times

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