Maculopatia senile umida: nuove terapie per proteggere la retina

Il trattamento con iniezioni intravitreali di farmaci anti-VEGF rappresenta oggi il gold standard.

Tutti concordi, gli esperti: la maculopatia senile umida ha spesso un impatto rapido e devastante sulla vita di pazienti e caregiver. E oggi il gold standard terapeutico per la malattia nella sua forma umida è rappresentato da un trattamento continuativo a base di iniezioni intravitreali di farmaci anti-VEGF, una classe di molecole che agisce inibendo la proliferazione dei nuovi vasi sanguigni all’interno della retina e arginando la perdita di fluido retinico. «La diagnosi della maculopatia deve essere precoce perché da questa patologia purtroppo non si guarisce – commenta il presidente della Società Oftalmologica Italiana, Matteo Piovella. Le strategie terapeutiche tempestive comprendono il controllo del fluido patologico in modo da impedire il danneggiamento di altri fotorecettori, oltre a quelli già compromessi, mantenendo quindi lo status quo in termini di vista. In caso di successo, parliamo quindi di “controllo” della malattia, e al paziente deve essere spiegato con attenzione il rischio di progressione della malattia per sensibilizzarlo sull’importanza del mantenimento nel tempo della terapia. In Italia ben il 70 percento della popolazione non riceve o riceve in maniera parziale la terapia, vanificandone il risultato curativo. Le cause sono molteplici: alcune sociali, come la scarsa consapevolezza della malattia da parte del paziente; altre strutturali e organizzative, come la troppa burocrazia e le poche risorse a disposizione delle strutture sanitarie»
. Nell’armamentario terapeutico dell’oculista ci sono diverse classi e generazioni di farmaci. Alcuni sono stati sintetizzati oltre dieci anni fa e altre sono molecole sviluppate in tempi recenti che, rispetto a quelle di prima generazione, hanno una superiore capacità di controllare il fluido retinico, richiedendo di conseguenza una minore frequenza iniettiva per mantenere la retina asciutta. «È il caso di brolucizumab – sottolinea il professor Federico Ricci, direttore dell’Unità Patologie croniche degenerative oftalmiche dell’Università di Roma Tor Vergata –, un frammento di anticorpo umanizzato a singola catena, di piccole dimensioni, caratterizzato da un’ottima penetrazione tissutale e da un’elevata capacità di eliminare il liquido dalla retina, quindi il tessuto in condizioni di funzionamento ottimali. Brolucizumab è l’unico anti-VEGF ad aver dimostrato la sua efficacia in studi registrativi, per i pazienti eleggibili, con un intervallo di trattamento di tre mesi immediatamente dopo le tre dosi mensili di carico iniziali in circa il 50% dei casi. Il farmaco è stato infatti recentemente approvato dall’FDA con tale posologia, definito regime fisso, che permette inoltre una precisa programmazione della terapia nel tempo». Redazione Nurse Times Fonte: Avvenire  
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