Laurea in infermieristica: “cursi studiorum”, le contraddizioni e le opportunità

Interessante, anche curioso, l’ultimo articolo di  Roberto Polillo  pubblicato su Quotidiano Sanità in data 11 novembre 2015 sulla situazione dei Corsi Universitari di Scienze Infermieristiche.

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Attratto dal titolo ho dato una prima lettura veloce a quanto si affermava, poi come spesso accade quando qualcosa comincia a insinuarsi ho proceduto a rileggerlo, cercando tra le righe qualche spunto polemico e controverso che avesse come obiettivo il ridimensionamento del valore accademico del titolo in Dottore in Scienze Infermieristiche.

Da Infermiere soffro di manie persecutorie e se qualcuno parla della mia Professione prima di dare ragione e credito parto sempre dal presupposto che sia in torto se non in malafede.

Polillo apre il suo articolo con una domanda verso la quale ho provato tante volte a rispondere, salvo poi non trovare interlocutori capaci di un’analisi obiettiva e priva di conflitto di interesse.

La domanda che vorrei rivolgere agli studenti del Cdl in Infermieristica è un giudizio sul corso che stanno seguendo, un giudizio dei Professori, vizi e virtù di un ambiente che in tanti anni quasi mai è stato sottoposto a valutazione ma che ha visto, come Polillo sottolinea, un proliferare di Corsi dove Roma ne diviene capitale anche in questo settore. Visto che le vostre impressioni mi interessano molto e volevo provare a capire, potete scrivermi a pierocaramello.infermiere@gmail.com

Il 47% dei neo laureati proviene da Roma, di per se un’anomalia che dovrebbe far sorgere più di un sospetto, anche in virtù di una gestione passata della Professione.  E’ un numero impressionante, 1 infermiere su 2 in questo Paese si laurea nella Città Eterna, probabilmente l’elevata offerta attrae gli aspiranti Infermieri e questo dato così da solo non ci aiuta a districare la matassa.

Senza approfondire Roma è palese un’anomalia tutta italiana, ovvero quando la normativa dice una cosa e la consuetudine porta da un’altra parte. Mentre la 42/99 prevedeva la superiorità del Corso Universitario come strumento principale per definire le competenze specifiche infermieristiche, le nostre Università e la nostra strategia professionale, ci traghettava in una diversa realtà, ovvero che il corso altro non era che un percorso propedeutico e necessario (ci mancherebbe altro) per accedere ad ulteriori percorsi di formazione.

Ulteriore campo di analisi, secondo chi scrive quella più rilevante, è la difformità degli ordinamenti didattici.

La rilevanza è legata alla domanda: perché accade? Che differenze ci potranno mai essere nel percorso didattico di un aspirante infermiere che sceglie La Sapienza piuttosto che La Cattolica o ancora Roma piuttosto che Milano oppure Parma, Firenze o Palermo?

Certo, come giustamente fa notare Polillo, l’autonomia prevista dal DM 270 ha creato questa difformità di offerta didattica, portando con se importanti scostamenti tra le varie Facoltà sparse sul territorio nazionale, ma questo da solo non spiega le scelte che vengono perpetuate dalle stesse.

Polillo poi ci mette una sagace dose di ironia quando prova a giustificare la mancanza di dati che possano permettere una seria valutazione e comparazione delle offerte didattiche, rimane però indubbio che nelle sedi universitarie debba esistere un qualche ufficio dove solerti titolisti impegnano il loro tempo per scovare nomi per lo meno discutibili al fine di attrarre con un metodo di marketing gli aspiranti studenti in Infermieristica. Mi viene voglia di iscrivermi solo per seguire un corso dal titolo “Filogenesi delle Professioni Sanitarie” e scoprire, magari, che questo corso mi aiuterà, in seguito, per relazionarmi con maggiore consapevolezza in una dimensione di Equipe.

Pur apprezzando lo sforzo di Polillo nel tentativo di dare una spiegazione plausibile ad un suo quesito sul nostro percorso Universitario, mi stupisco che inciampi in una affermazione piuttosto disarmante.

Si scopre, leggendo l’articolo, che alcune Università puntino alla formazione di Infermieri con corsi a forte carattere locale, attraverso l’attivazione di percorsi didattici che puntino a favorire l’assimilazione delle caratteristiche organizzative proprie di quella regione. L’esempio dei corsi sul tema dell”Intesità di Cura” attivati a Pisa. La Regione Toscana ha da tempo attivato la sua organizzazione ospedaliera sul modello assistenziale per intensità di cura, io che sono toscano non me ne sono accorto e dubito che sia accaduto ai colleghi nelle U.O., appare ovvio che non sia plausibile pensare di licenziare nuovi professionisti completamente digiuni di tale modello.

Ma questo non è colpa delle Università ne di chi ha la responsabilità di organizzare i corsi, la colpa mi sia permesso di dirlo (se di colpa possiamo parlare) è del Sistema nel suo complesso che vede un paese come il nostro, capace attraverso la riforma dell’art 117 di creare una disomogeneità sanitaria che si è tradotto in 21 Sistemi spesso molto lontani tra loro.

Condivido invece l’analisi delle difformità dei CFU, la tabella che Polillo ci presenta è piuttosto disarmante per non dire comica, qui una riflessione da parte di chi questa professione ha la responsabilità di guidarla dovrebbe essere fatta e possibilmente seguita da una spiegazione. Il tutto per una questione di trasparenza che aiuti a dipanare dubbi sulla validità del nostro Corso Universitario.

Sul versante “Magistrale” le cose non vanno meglio, anche se almeno in questo caso si possono citare due lavori che hanno provato a valutare la bontà dei corsi.  Sorvolo sulle conclusione dello studio condotto da Rega e Coll., la risposta al loro quesito mi lascia alquanto attonito.

Le conclusioni a cui arriva Polillo le lascio alla volontà dei lettori ed al loro giudizio, magari fatemi sapere cosa ne pensate, di mio vorrei giungere ad altre conclusioni.

Lo spunto di Polillo è importante, al netto che lo si condivida o meno, e l’importanza risiede non tanto nella questione della dis-omogeneità e delle colpe oppure sulla validità o meno del corso di “Filogenesi delle Professioni Sanitarie”, di cui vi prometto di provare ad approfondire, ma soprattutto nell’accezione ormai dimenticata della parola studio.

Recentemente, anche grazie ad un libro letto nelle ore serali quando a casa mia cala un salutare silenzio, ho potuto riflettere sulla questione “studio” che dovrebbe essere alla base di ogni percorso didattico.

La questione universitaria, ma si dovrebbe allargare a tutto il campo della scuola in genere, sta perdendo quella sua caratteristica principale che prevede nello “studiare” la sua caratteristica fondamentale. Questo avviene perché ogni studente messo di fronte al quesito “perché devo studiare” e la risposta è “per trovare un lavoro”.

Tralasciando le polemiche legate alla disoccupazione infermieristica, dobbiamo ammettere che se impostiamo un corso di studi sull’obiettivo “lavoro” quello che riusciremo ad ottenere non saranno professionisti capaci di approfondire  e migliorare la professione ma Infermieri pronti ad operare fattivamente nel mondo della produzione.

Questo meccanismo diabolico sta togliendo spazio al rigoroso mondo dello “studiare”, che avrebbe nella dimensione del tempo e dello spazio una sua caratteristica fondamentale.

I corsi universitari sono improntati alla realizzazione in serie di Infermieri, come se gli aspetti rilevanti della nostra attività fosse l’acquisizione in massa di nozioni che per altri professionisti (ad esempio i medici) richiedono mesi di preparazione per potersi dire capaci di maneggiare con cura la materia.

Questo disparità, che rimane a mio umile giudizio il vero vulnus dei “cursi studiorum”, non ha fatto altro che allargare quella forbice tra “sapere” e “sapere essere”.

Quando nel lontano 1992 superavo l’Esame di Stato quello che si chiedeva al sottoscritto era la capacità di assistere il paziente ed eseguire una serie interminabili di mansioni spesso lontanissime tra loro per capacità tecnica, relazione e scientifica: pensate come poteva essere difficile per un infermiere di dialisi passare dalla gestione del paziente durante la seduta e dopo 5 minuti diventare il braccio armato del rifacimento del letto e della sua sanificazione.

Quando finalmente la normativa premiava la nostra volontà ad evolvere, uno degli aspetti elettrizzanti che ho spesso invidiato ai colleghi giovani era la possibilità di frequentare l’Università con l’occasione di accedere ad un mondo di “saperi” sulla scienza medica che poteva dare un nuovo lustro alla scienza infermieristica. Quello che non potevo immaginare è che a distanza di anni la nostra Scienza rimane largamente marginale rispetto alle decisioni sulle questioni sanitarie.

La colpa di quanto avviene non la addosso solamente a chi non ha saputo governare un cambiamento culturale ma anche verso quell’occasione mancata che l’Università doveva e poteva essere: diventare luogo di approfondimento e di studio perché si formasse una nuova cultura e coscienza professionale.

Gli studenti di infermieristica non hanno il tempo di approfondire, vi sono corsi che durano lo spazio di qualche ora con il risultato che l’obiettivo non è quello di conoscere ed introiettare dentro la materia ma quello di superare l’esame per accedere alla prova successiva, non studiano, si allenano per superare test.

Sono consapevole che quanto affermo potrà sembrare ai più esagerato ed alcuno potrebbe addirittura offendersi, ma ritengo di avere la responsabilità di sollevare il problema e di porre il dubbio.

Per deformazione professionale tendo sempre a non lasciare il lettore privo della possibilità di leggere anche delle proposte, perché l’argomento è si delicato ma soprattutto strategico per la professione del futuro.

In un momento di confusione tra ciò che siamo e ciò che potemmo essere, dobbiamo avere anche il coraggio di chiederci come arrivarci ad una nuova dimensione dell”essere. Non auspico un percorso che formi semplicemente dei bravi “tecnici dell’assistenza” ma un cambiamento culturale che sappia formare professionisti capaci di cogliere i mutamenti significati della società, sia essa in salute che in malattia.

Una rivoluzione formativa che non deve passare attraverso solamente al percorso post laurea ma che aggredisca direttamente alla fonte e porti l’ordinamento didattico in una vera dimensione Universitaria.

La vera rivoluzione della professione passa attraverso lo studio, all’approfondimento, a quel percorso che non preveda un risultato immediato di creare un professionista ma di “formarlo”.

La ribellione auspicata è che gli studenti in Infermieristica pretendano di approfondire quanto loro chiesto di studiare affinché si possa affermare un scelta accademica che ad oggi non ha ancora trovato la sua vera dimensione.

Piero Caramello

Redazione Nurse Times

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