Coronavirus, cellule T e “supervaccino” contro le varianti: nuovo studio dalla California

Pubblicata su Cell la ricerca coordinata dalla dottoressa Alba Grifoni, che ne ha parlato con l’agenzia Dire.

La battaglia contro il coronavirus, che va avanti da oltre due anni, ha trovato nei vaccini un’arma importante. Comunemente si pensa alla risposta immunitaria prodotta dai sieri, ma in realtà sono fondamentali le meno note cellule T, che contribuiscono a ridurre l’aggravarsi della malattia.

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La dottoressa Alba Grifoni (foto), ricercatrice della Jolla Institute of Immunology di San Diego, in California, ha coordinato uno studio proprio sulle cellule T, che riconoscono le cellule infettate e arrivano dove la normale risposta anticorpale non giunge. La ricerca è stata appena pubblicata sulla rivista scientifica Cell. “Le cellule T – ha spiegato nel corso di un’intervista video rilasciata all’agenzia Dire – eliminano quelle infette. Questa una delle ragioni per cui la maggioranza delle persone vaccinate ha sintomi lievi. Tali cellule T di memoria vengono prodotte indipendentemente dal vaccino ricevuto e hanno effetto anche contro la variante Omicron”.

Ma in futuro, oltre a un vaccino ad hoc per Omicron, la ricercatrice vede un “pan-coronavirus”, una sorta di “supervaccino” contro tutte le possibili varianti future. “Il SARS-CoV-2, tanto quanto altri coronavirus, ha delle parti che si conservano – ha spiegato ancora Grifoni –. Quindi ci sono degli sforzi per cercare di capire quali siano queste porzioni conservate, nel tentativo di generare un vaccino ‘pan-coronavirus’. La strategia più indicata, allora, è proprio quella di cercare porzioni conservate del virus che ci permetteranno di combattere le nuove varianti, ma probabilmente anche i virus del comune raffreddore”.

Nel frattempo si stanno valutando anche altre strategie, come per esempio dei vaccini contro la variante Omicron, ormai diventata predominante a livello globale. Non si rischia però in questo modo di fare una corsa contro il tempo, con l’arrivo di nuove varianti? “Se arriva una nuova variante, quella avrà similitudini con Omicron – ha risposto la ricercatrice –. Se noi continuiamo a lavorare con la variante originale, la probabilità che avremo sempre più un decremento della risposta anticorpale sarà più alta”.

Tornando allo studio del team californiano, emerge il ruolo fondamentale delle cellule T prodotte da quattro diversi vaccini per contrastare forme gravi del virus SARS-CoV-2, ma anche la recente variante Omicron. Ma come funzionano esattamente queste cellule? “Se noi vogliamo immaginare come funziona la nostra risposta immunitaria, ci sono di fatto due grosse branche che combattono il virus – ha dichiarato Grifoni –. La prima, quella più familiare per la popolazione in generale, riguarda gli anticorpi. Sappiamo che gli anticorpi hanno la funzione di legarsi al virus e prevenire l’infezione. Una volta però che il virus è riuscito a infettare la cellula, gli anticorpi non lo vedono più”

.

Ed è qui l’importanza della seconda branca, ossia quella delle cellule T che sono in grado di capire se una cellula è infettata dal virus ed eliminarla. “Dal punto di vista delle varianti – ha proseguito Grifoni – studi dimostrano che abbiamo un decremento della risposta anticorpale e quindi ci siamo chiesti se le cellule T fossero ancora in grado di riconoscere le diverse varianti e di limitare possibilmente l’infezione. Il nostro studio si è concentrato su questo, per comprendere anche se esisteva una differenza rispetto al vaccino ricevuto. La buona notizia è che la maggioranza della risposta è conservata anche nel processo di Omicron, indipendentemente dal vaccino che noi riceviamo”.

Andando per deduzione, allora, non è l’Omicron “meno pericolosa”, come spesso si sente dire, ma è merito dei vaccini, e in particolare delle cellule T, se sono diminuiti i decessi? “In realtà tutte le informazioni che si ricevono sono vere, ma bisogna sempre pensare che è una combinazione di fattori. È vero che il virus oggi non si replica bene a livello dei nostri polmoni e per questo, visto che la malattia severa è causata dall’infezione a livello polmonare, la variante Omicron non induce questo tipo di infezione molto prominente, quindi di per sé è meno pericolosa. È vero anche, però, che la variante si trasmette molto più rapidamente delle precedenti e perciò per una questione di numeri, in assenza di una risposta immunitaria che ha già visto il virus o pezzi del virus tramite la vaccinazione, chiaramente ci potrebbero essere dei sintomi più severi della malattia. Qui entra in gioco la risposta immunitaria e la vaccinazione, infatti sappiamo che molte persone vaccinate, che hanno comunque una infezione, nella maggior parte dei casi hanno dei sintomi lievi”.

Le terze dosi in Italia procedono a un buon ritmo, eppure tante persone ritengono ancora che la booster non sia necessaria. In questa situazione quanto è determinante il richiamo? “Senza richiamo la nostra risposta anticorpale ha grosse difficoltà nel riconoscere la variante Omicron. Avere una booster aumenta la capacità della risposta anticorpale di bloccare la variante. È vero che non è in grado di bloccarla completamente, ma anche qui è un discorso di numeri, e la vaccinazione aiuta comunque a ridurre la quantità di infezione. Non sappiamo al momento se, almeno nei soggetti sani, la dose booster aumenti anche la risposta delle cellule T, ma ci sono studi che già hanno dimostrato come invece aumenti la risposta anticorpale e delle cellule T in soggetti immunocompromessi. In questi casi la dose booster è sicuramente fondamentale. Anche nei soggetti sani, però, riduce la probabilità di infezion, e sono certa che gli italiani siano più contenti di non contrarre il virus”.

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