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C’è un momento in cui tutto si decide. Un giovane si avvicina, con occhi pieni di curiosità e speranza, e chiede:
“Com’è fare l’infermiere?“
E noi, invece di illuminare la sua curiosità, lo fulminiamo con la risposta tipica:
“Lascia perdere, non ne vale la pena.”
Fine della storia.
L’anti-orientamento made in corsia
Altro che campagne di orientamento nelle scuole: i più grandi deterrenti alla scelta infermieristica siamo noi, i professionisti già in servizio. La letteratura lo chiama “esposizione negativa sanitaria”, ma in parole povere significa che, troppo spesso, il primo approccio dei giovani con la sanità è tossico.
In reparto, tra un turno e l’altro, gli studenti ci ascoltano lamentarci di tutto: i turni, i pazienti, le ferie, la mensa, i dirigenti, la paga, persino del caffè della macchinetta.
E quando il tirocinante osa dire “a me piace”, scatta la risata collettiva, quella da “vedrai dopo”.
La verità è che, con la stessa passione con cui dovremmo formare, stiamo dissuadendo.
Abbiamo trasformato la vocazione in un racconto horror, la professione in un avvertimento.
Dal tirocinio alla terapia dissuasiva
Ogni anno centinaia di studenti entrano nei reparti pieni di entusiasmo. Ne escono come reduci da un reality show sanitario: esausti, demotivati, spesso umiliati.
Non per colpa del lavoro, ma per colpa dell’ambiente umano.
Molti infermieri trattano gli studenti come intrusi, non come futuri colleghi. Gli danno ordini, non spiegazioni.
Gli lasciano fare i lavori “umili”, ma non gli affidano la responsabilità “vera”. Il messaggio implicito è chiaro:
“Non sarai mai all’altezza, e se lo sarai, comunque non ti pagheranno abbastanza.”
E così, invece di trasmettere competenza, trasmettiamo stanchezza. Invece di essere modelli, diventiamo moniti.
L’ambiente tossico non è solo chimico
L’esposizione negativa durante i tirocini e le prime esperienze professionali influenzano in modo decisivo la scelta o l’abbandono del percorso infermieristico. E non si tratta solo di orari o carichi di lavoro, ma di clima emotivo. Un reparto in cui regna la lamentela cronica è un campo sterile per la motivazione. Non cresce nulla, tranne il cinismo.
Abbiamo perso la capacità di stupire, di raccontare la bellezza nascosta nella cura, quella che non si misura in KPI o cartellini, ma in sguardi e fiducia. E se chi entra oggi trova solo amarezza, non tornerà domani.
Da vittime a complici
Siamo stati vittime del sistema, è vero. Ma siamo diventati anche i complici inconsapevoli della sua decadenza. Ogni volta che diciamo “non ne vale la pena”, senza proporre alternative, contribuiamo al vuoto che ci circonda. Ogni volta che un giovane cambia strada, un pezzo del futuro infermieristico muore in silenzio.
Non serve idealizzare la professione, ma servirebbe smettere di distruggerla dall’interno.
Perché a forza di raccontare solo le ombre, abbiamo dimenticato che esiste ancora la luce.
Il contagio della disillusione
Noi infermieri siamo esperti nel prevenire le infezioni, ma non abbiamo ancora trovato un vaccino contro il contagio della disillusione. Eppure basterebbe poco: un incoraggiamento, una testimonianza sincera, una parola che dia prospettiva invece di spegnerla.
Forse non possiamo cambiare il sistema, ma possiamo cambiare il modo in cui lo raccontiamo.
E allora, se siamo davvero la professione della speranza, perché abbiamo smesso di darla a chi vuole seguirci?
Se davvero amiamo la professione, la prima responsabilità è verso chi la seguirà: non basta lamentarsi; dobbiamo trovare le forze per cambiarla e migliorarla.
Questo significa investire in formazione e tutoraggio di qualità, difendere condizioni di lavoro dignitose e recuperare la capacità di raccontare il senso della cura. Solo così tuteleremo i pazienti, ridaremo speranza alle nuove generazioni e rafforzeremo la sanità pubblica. La sfida è grande, ma abbandonare la professione dall’interno sarebbe la sconfitta più grave: la cura comincia dal modo in cui la raccontiamo.
Guido Gabriele Antonio
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