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Immunoterapia, pembrolizubam efficace nelle pazienti con tumore al seno

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Tumore al seno metaplastico può avere origine ereditaria: lo studio
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Nuovi dati provenienti dalla fase 3 dello studio clinico KEYNOTE-756 mostrano che abbinare pembrolizubam, farmaco per l’immunoterapia, alla chemioterapia prima e dopo l’intervento chirurgico per cancro al seno porta migliori esiti per le pazienti, indipendentemente dalla loro età o dallo stato di menopausa.

I risultati, presentati oggi alla 14esima European Breast Cancer Conference (EBCC 14) in corso a Milano, si aggiungono alle informazioni disponibili sull’effetto del pembrolizumab nelle pazienti con tumore al seno nella fase iniziale che è ad alto rischio di recidiva o di ulteriore diffusione e che è positivo al recettore degli estrogeni (ER positive) e HER2 negativo.

Il KEYNOTE-756 è uno studio internazionale avviato otto anni fa. Nello studio sono state inserite con metodo casuale 1.278 pazienti alle quali è stato somministrato il pembrolizumab o un placebo in aggiunta alla chemioterapia neoadiuvante, cioè prima dell’intervento chirurgico, seguita dal pembrolizumab adiuvante, dato cioè dopo l’intervento, o da placebo in combinazione con una terapia endocrina. Le pazienti avevano un carcinoma duttale invasivo (IDC), che significa che il tumore ha cominciato a diffondersi al di fuori dei dotti galattofori nei tessuti circostanti della mammella.

Il professor Javier Cortés, direttore del Centro Internazionale per il tumore al seno di Barcellona, in Spagna, ha dichiarato: “Abbiamo già riportato che c’era un aumento statisticamente significativo nel tasso di completa risposta patologica (pCR) nelle pazienti che hanno ricevuto pembrolizubam rispetto a quelle che hanno ricevuto il placebo. Il tasso di completa risposta patologica, che significa che non sono rimaste cellule tumorali nella mammella o nei linfonodi, era del 24.3% nelle pazienti trattate con pembrolizubam rispetto al 15.6% di quelle trattate con il placebo”.

“Ora – ha aggiunto il professore – possiamo dimostrare che questi tassi di pCR sono stati riscontrati indipendentemente dall’età o dallo stato di menopausa. Nelle pazienti con meno di 50 anni il tasso di pCR era del 23.8% nelle donne che hanno assunto il pembrolizubam (76 su 319 pazienti) rispetto al 16.9% (55 su 326) che hanno assunto il placebo ed era, rispettivamente, del 24.7% (78 su 316 pazienti) contro il 14.2% (45 su 317) in quelle dai 50 anni in su. Nelle donne in pre-menopausa, il tasso di pCR era, rispettivamente, del 23.4% (83 pazienti su 354) contro il 16.1% (57 su 353) e nelle donne in post-menopausa era del 24.8% (69 su 278 pazienti) contro il 14.6 (42 su 287)”.

“Abbiamo anche scoperto – prosegue – che aggiungere il pembrolizumab alla chemioterapia neoadiuvante non ha ritardato il momento dell’intervento chirurgico. Il tempo medio della chirurgia in entrambe i gruppi è stato di circa un mese. Il tempo medio di inizio dopo l’intervento del trattamento adiuvante è stato di 1.2 mesi in entrambe i gruppi”.

Lo studio evidenzia che ci sono stati tassi simili di impiego della chirurgia conservativa della mammella e della mastectomia in entrambe i gruppi. Tra le pazienti sottoposte a chirurgia conservativa, il 41.3% (262 donne) ha ricevuto il pembrolizumab e il 43.7% (281) ha ricevuto il placebo. Tra quelle che sono state mastectomizzate, il 55.3% (351 pazienti) è stato trattato con pembrolizubam e il 54.4% (350 pazienti) ha avuto il placebo”.

Il tessuto prelevato durante l’intervento è stato analizzato per capire se fossero rimaste cellule tumorali dopo il trattamento neoadiuvante, cioè il carico tumorale residuo (RCB). Il pembrolizumab neoadiuvante ha determinato un carico tumorale residuo più basso per più pazienti, indipendentemente da quanto l’immunoterapia abbia bloccato una proteina chiamata PD-L1, che causa alcuni tipi di tumore al seno.

I referti patologici hanno evidenziato che il 35% delle pazienti (222) trattate con il pembrolizumab non hanno avuto un carico tumorale residuo o lo hanno avuto in piccola quantità (RCB 0-1) contro il 23.6% delle pazienti (152) che hanno ricevuto il placebo. Una moderata quantità di carico tumorale residuo (RCB-2) è stato trovato nel 40.8% delle pazienti trattate con pembrolizumab contro il 45.3% (259 su 291 pazienti) e un carico più alto (RCB-3) è stato rilevato nel 20.5% rispetto al 28.9% delle pazienti (130 su 186).

Quando i ricercatori hanno analizzato l’effetto del pembrolizumab nelle pazienti che avevano un tumore ER positivo in meno del 10% delle cellule, nel 10% o in più del 10%, hanno scoperto che il 64.7% delle pazienti (22 su 34) con meno del 10%, che erano state trattate con pembrolizumab, avevano uno stato di carico tumorale residuo di 0-1 rispetto al 37.2% delle pazienti trattate con il placebo (16 su 43). Nelle pazienti con il 10% o più di cellule ER positive, il 33.3% aveva uno stato di carico tumorale residuo 0-1 rispetto al 22.7% (rispettivamente 200 pazienti su 601 contro 136 su 600 pazienti).

La dottoressa Fatima Cardoso, direttrice della Breast Unit del Champalimaud Clinical Centre di Lisbona, in Portogallo, è la principale ricercatrice dello studio. Prima dell’EBCC14, ha dichiarato: “Lo studio KEYNOTE 756 ha dimostrato che l’aggiunta del pembrolizumab alla chemioterapia neoadiuvante ha significativamente aumentato la risposta patologica al momento dell’intervento chirurgico e questo era vero indipendentemente dai livelli PD-L1 e dalla positività al recettore degli estrogeni. Tuttavia, abbiamo visto un beneficio più significativo nelle donne con un più alto livello di PD-L1 e nei tumori con ER più basso”.

“KEYNOTE-756 – ha aggiunto la dottoressa – è anche l’unico studio che è stato avviato per analizzare l’impatto dell’immunoterapia nei risultati a lungo termine per questo sottotipo di tumore della mammella”.

Gli eventi avversi derivanti dai trattamenti sono rimasti invariati rispetto ai report precedenti dello studio ed erano coerenti con ciò che è già noto su ogni regime terapeutico. Lo studio continua a seguire le pazienti e i ricercatori stanno raccogliendo informazioni sui tassi di sopravvivenza, sulle eventuali recidive e su altri sintomi correlati.

Il professor Michail Ignatiadis dell’Istituto Jules Bordet di Brussels, in Belgio, è il presidente della 14^ edizione della European Breast Cancer Conference (EBCC14) e non è stato coinvolto nella ricerca. Ha dichiarato: “Abbiamo ascoltato altri dati dallo studio KEYNOTE-756 che ci dicono quali sottogruppi di pazienti con tumore ER positivo/HER2 positivo possono beneficiare maggiormente dal pembrolizumab in termini di completa risposta patologica. E’ necessario un follow-up più lungo per vedere se il miglioramento dei tassi di pCR  risulterà in altre pazienti che vivranno di più senza recidive e aspetteremo questi dati a tempo debito”.

Redazione Nurse Times

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