Riceviamo e pubblichiamo una nota a fiorma di Alessandro Corlazzoli, dell’Associazione Italiana Movimento Oss (AIMON).
Negli ultimi giorni l’attenzione nazionale si è concentrata sull’ospedale San Raffaele di Milano, dove un episodio – sul quale non intendiamo entrare nel merito, né abbiamo la presunzione di attribuire responsabilità – ha scosso l’opinione pubblica e acceso un dibattito sul sistema sanitario.
Più che soffermarci sulle dinamiche specifiche, ciò che riteniamo necessario mettere in evidenza è la lezione, il take message che questo evento ci consegna: un richiamo forte e inequivocabile alla necessità di riformare in modo strutturale il quadro contrattuale del personale sanitario italiano.
Un sistema frammentato che crea disparità
L’episodio del San Raffaele ha portato alla ribalta un problema noto da anni: la frammentazione contrattuale del settore sanitario. Oggi in Italia convivono diversi contratti collettivi nazionali – pubblici, privati, cooperativi, fondazionali – con livelli retributivi, tutele e carichi di lavoro spesso molto distanti tra loro.
Questa eterogeneità produce effetti tangibili:
- mobilità forzata dei lavoratori verso i contratti più convenienti;
- abbandono di interi comparti dove la retribuzione è troppo bassa;
- carichi di lavoro insostenibili per chi resta;
- rischio di deroghe, implicite o esplicite, alle norme basilari sulla sicurezza del lavoro;
- potenziali ripercussioni sulla salute degli operatori e, nei casi più estremi, anche dei pazienti.
È un percorso pericoloso, già visto in altri settori, dal quale la sanità non può permettersi di farsi trascinare.
Il principio giuslavoristico dimenticato
Nel panorama lavorativo esiste un principio fondamentale: la tutela della parte debole del rapporto di lavoro. Nel settore sanitario questo principio non è solo un dovere giuridico, ma anche un imperativo etico: tutelare chi lavora significa tutelare chi viene curato.
Perché serve un contratto unico di categoria
Come AIMON, ribadiamo da tempo che la soluzione non può essere una corsa verso il contratto meno oneroso, bensì l’esatto contrario: l’adozione di un contratto unico di categoria sanitaria su tutto il territorio nazionale, che prenda come riferimento i parametri del Ccnl pubblico e li estenda a tutti i lavoratori del settore, indipendentemente da dove essi esercitino la propria attività.
Un infermiere, un fisioterapista, un tecnico sanitario, un oss sono professionisti sanitari ovunque operino: in un ospedale pubblico, in una fondazione, in una clinica privata, in un Irccs. Le loro responsabilità, l’impatto delle loro decisioni, il valore sociale del loro lavoro non cambiano con la partita Iva del datore.
Un messaggio che il Paese non può ignorare
Il caso del San Raffaele, al di là delle sue specificità, ci offre l’occasione di guardare con maggiore consapevolezza alle criticità strutturali del sistema. Non serve puntare il dito: serve cambiare direzione. Un contratto unico non è solo una richiesta sindacale, ma una garanzia per la sicurezza, la qualità delle cure e la dignità professionale. È tempo di riconoscere che chi lavora nella sanità è patrimonio del Paese. E come tale deve essere trattato.
Redazione Nurse Times
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