Maggiori competenze specialistiche in emergenza e un nuovo modello logistico di distribuzione del sapere potrebbero aiutare?
Chi legge è un sanitario? Meglio così, può capire di sicuro o interpretare uno stato d’animo che più volte ci avviluppa e ci stringe unanimi a scelte estreme, richiamando l’atavico senso di sopravvivenza. Ci fa inorridire e inveire contro il cielo, richiamando in causa la sorte: “Se così doveva andare…” Quel destino barbaro, contro cui altro non puoi fare, che fermarti a pensare che non vali nulla su questa terra, se non fai qualcosa di utile, di prezioso. Se grazie a te un bimbo sorride, o il dono che ti rende caro l’aiuto ad un malato.
Ma cosa succederebbe al nostro intimo se si potesse salvare una vita che davanti ai tuoi occhi sta per spegnersi? La vedi lì che pian piano svanisce, e richiami alla mente, nel tuo bagaglio logoro, se pensi di possedere un attrezzo da usare nel momento giusto, al posto giusto. Cosa fare? Pensi di aver studiato per confortare le persone, medicarle, curarle.
Ma qualcuno ti ha mai insegnato a salvare delle vite umane che si stanno consumando? Questo no, mai. Pensi che fai il tuo lavoro, rinchiuso, sgobbando nei turni massacranti, pensando ai problemi familiari che non ti lasciano un secondo. Ma no. La salvezza della vita la lasciamo a qualcun altro.
Quando nulla si può davanti al destino infame, dove t’aggrappi? Il Padreterno vede e provvede, ha dato intelletto agli specialisti di teorizzare sui libri e poi a qualcun altro di esercitarsi, far pratica sui manichini. E poi chissà quante volte mai è possibile che capiti davvero, in emergenza lavorativa. Poche….
Ma se capita quando sei in procinto di costruire castelli in aria, quando hai dismesso il tuo abito professionale solo per un momentino, lì all’angolo? Se capitasse nel momento in cui volevi ritagliarti su misura un riquadro di puro abbandono alla spensieratezza? No, anche in quel momento sei costretto a guardarti le spalle, devi essere pronto e sull’attenti, a richiamare la professione, ad aprire di corsa la tua mente, ad aprire il cuore, ad afferrare l’attimo. Ma quando non serve neanche questo?
Vi racconto una storia. Ma di quelle vere. Che ti velano il cuore, ti lasciano l’amaro e dopo ti fanno sentire una nullità. Ma ci hanno insegnato ad andare al significato della storia, ad abbracciarne l’essenza, ma anche ad imparare da essa. Imparare da questi accadimenti ci renderebbe consapevoli del potere che, come sanitari, abbiamo. Un potere su cui mai e poi mai deve esserci un pulsante di ON-OFF. La consapevolezza del bene-vita è l’arma vincente, uno sprone illuminante che ci guidi come faro nel nostro monotono lavoro.
La storia che vi racconterò è avvenuta in un ristorante di una località del Capo di Leuca, nella sera del 9 settembre. Si stava festeggiando l’arrivo della tanto agognata pensione per un medico. Festa da lui organizzata per condividere in allegria un traguardo, anche se tra ricordi e rimpianti, della vita di reparto. Equipe al completo, colleghi, amici, e quant’altri. Che, tradotto in termini pratici, vuol dire che il locale era zeppo di personale sanitario: medici, infermieri, forse anche tecnici. Una piccola clinica in pausa, in un momento diverso dal solito, di allegria e propositi goliardici e malinconici.
Arriva il momento della cena, si inizia a banchettare, la tristezza è bandita. Un’infermiera si alza e si reca in bagno. Dopo pochi attimi, irrompe dall’ombra un cameriere, pallido in volto, preoccupato e atterrito, che ad alta voce cerca di farsi spazio tra il brusio generale degli invitati: “Verso il bagno c’è una signora che sta male. Qui siete tanti dottori e infermieri. Presto!”. Qualcuno non lo sente e neanche lo vede. Altri non ci badano. Alcune colleghe si alzano, incredule del tanto evitabile clamore. Per un nonnulla forse.
Arrivate nel posto indicato dal cameriere, trovano la collega che si dimena, quasi inerme, scura in volto, esausta. Subito si grida aiuto. L’attività della sala si ferma. Ci si guarda increduli, ci si guarda inorriditi. Tutti che si guardano, tutti che pregano. Noi siamo abituati a pregare prima di agire, lo facciamo da sempre, è una mossa incoraggiante. Ma finite le preghiere sei là che ricominci a farlo a ruota. Ma qualcosa ti blocca. Forse si aspetta la risposta alle preghiere, un parere dall’alto, come una consulenza buttata lì all’occorrenza, e temiamo quasi che ci diano un appuntamento a lunga data.
Preghiamo e ripreghiamo che sia solo un sogno. Questo non è il momento di affrontare un’urgenza, fuori dal contesto poi, è un vile affronto! Intanto la tragedia prosegue, con qualche accenno al vecchio Heimlich. Timide manovre, molto timide. Ma è il giovane cameriere che tenta di buona lena prima di tutti. Sa che si fa così e basta. Provano anche altri quello che si è studiato sui libri, ma ormai anche a qualche corso, a volte obbligatorio a volte no. Poi tutti si muovono, nel senso che tutti pregano, quasi si leva un coro silenzioso, molto probabilmente per un esito veloce e favorevole. Ma non tutti si prodigano.
Nascono immediate scuole di pensiero, lì, all’istante. Nascono e muoiono fazioni illegittime. Ma quello che si fa è sempre meno. D’altronde in Italia accade che vi sia un morto a settimana per soffocamento e, arrivati al sabato, si prega forse che da qualche parte sia già successo, perché non capiti a te o a un tuo caro o amico. Il problema era che sta accadendo di domenica. Come conteggiare, allora?
L’infermiera a terra, un colorito blu, il classico orrore in volto. Lei sta pensando, obnubilata dalle ultime poche riserve che possiede. E pensa più veloce di tutti, perché non può permettersi di perdere tempo. Ma il pensiero che potrebbe confortarla, la illude: “Perché non fanno qualcosa? Perché non mi salvano?”.
Una domanda è lecita. Mi chiedo chi decida che non può essere fatto più niente. Chi in quel momento è stato così bravo da avere occhi bionici e carpire quasi il tracciato cardiaco e addirittura fare una approfondita analisi dell’EEG? Forse piatto? Come si fa a dire: “È il destino che chiama”? Allora, nel trambusto, un’idea… Qualcuno grida: “Datemi una penna!”. E prepara il materiale da buon infermiere, pensando al tubicino-cannuccia quale mezzo e presidio alla bisogna. Qualcun altro, previdente, tenta di preparare una scheggia affilata che funga da lama incisoria. Ma poi, il nulla.
E allora, qualcuno chiede: “Facciamo una tracheostomia?”. Il materiale è lì… E qualcun altro, ma non uno qualsiasi, e non solo quello, sbotta: “No, non è possibile, rischia di morire dissanguata!”. Di certo un medico specialista in processi degenerativi sanguinolenti. Cioè, il rapporto costo/beneficio era illusorio, non valeva la pena.
È bello essere solo testimoni della morte, guardarla in faccia, vederla passare, magari salutarla, e ringraziare che non sei tu quello interessante da accarezzare. L’ambulanza tarda, ma dov’è? Magari si è rotta, di questi tempi sta succedendo spesso, in Salento. Aspetta l’altra che li soccorra! E l’infermiera sempre a terra, colorito indescrivibile, morte nel cuore per tutti, e tutti in attesa che prima o poi questi medici in sala, ma non operatoria, facciano qualcosa. L’unica, sì, constatarne il decesso. Precisarne l’ora, che lei a terra, con qualche atomo ancora d’ossigeno, potrebbe in ultimo ascoltare.
Suvvia, l’ambulanza si sente. È lì che arranca la ripida salita col meraviglioso panorama, forse rallenta per vederlo meglio. Si sente armeggiare nel parcheggio, l’arrivo è già palese. E finalmente la salveranno, come si vede nei film, ma solo quelli americani. Attaccano la maschera d’ossigeno, torvi in volto, tanto… così va la vita, non arriverà viva, tanto ormai…
Il pensiero forse va nuovamente alla tracheostomia, ma nel comune senso del pudore sanitario non c’è posto per una pratica non comune. D’altronde siamo in Italia e non negli Usa, non in Canada, non in Inghilterra, non in Australia. Non siamo su un aereo, dove a volte trovi l’eroe che si lancia nell’impresa. Qui nessuno è uno “sporco paramedico”. Non si stabilizza in tutti i modi possibili il paziente, ma lo si trasporta di corsa in ospedale. Ma per cosa poi? Se per molti traumatismi il tempo è come l’oro…
Per ogni metro percorso con l’ambulanza, meglio dire con un mezzo molto antiquato (più di 150mila chilometri percorsi, e ancora sgambetta in attesa di un imminente nuovo appalto Asl), è come lanciar via dal finestrino gli eterei fili di speranza che restano al paziente. Tanti bei Corsi ACLS, PTC, e poi sempre a litigare col solito medico che, a detta di molti, non ti prende sul serio. Il solito problema italiano? Poco personale, pochi mezzi, molte competenze e professionalità distribuite tra pochi, che si disperdono al vento. Ma a quale prezzo?
Vi lascio con l’amaro, vi lascio a meditare sulla storia, vi lascio un brutto ricordo, e una luce: l’infermiera è salva. Il miracolo, quella sera, è accaduto. Ma vorrei credere che non fu per la prima mano ferma del cameriere. Vorrei vivere in un Paese dove il personale sanitario, tutto, sia addestrato a salvare la vita in tutti i modi possibili. Dove siano aperte e infinite le possibilità di conoscenza nelle emergenze. Dove ognuno sia sempre pronto a cogliere la vita che si spegne. Perché la vita è sacra fino all’ultimo insignificante anelito.
Giovanni Trianni
Infermiere legale forense
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