Ci sono momenti in cui le parole non bastano. Anzi, a volte nemmeno ci sono. Un paziente ti guarda, tu vorresti spiegare, rassicurare, curare. Ma non parlate la stessa lingua. Non solo quella fatta di suoni e grammatica: non parlate la stessa lingua dei gesti, delle abitudini, del modo di intendere la salute, la malattia, il dolore.
E allora ti chiedi: come si comunica quando tutto ciò che è familiare manca? È una domanda che mi porto dentro ogni volta che mi trovo davanti a un paziente di una cultura diversa dalla mia. Ed è una domanda che, da infermiere, mi ha insegnato che l’assistenza non si dà solo con le mani, ma con lo sguardo, con il rispetto, con l’ascolto che viene prima di ogni parola.
Le difficoltà che non si dicono
Nel nostro lavoro la diversità culturale è ormai la regola, non l’eccezione. Ma siamo davvero pronti ad accoglierla? La realtà ci mette davanti a problemi concreti: lingue che non conosciamo, valori che ci disorientano, reazioni che non comprendiamo. A volte è solo una visita che dura di più, un consenso informato che richiede il doppio del tempo. Altre volte è un rifiuto, una distanza, una frustrazione silenziosa. Quante volte ci siamo detti: “Non mi capisce”? Ma ci siamo mai chiesti se noi abbiamo davvero provato a capire lui?
La cultura come chiave, non come ostacolo
Essere infermieri in un contesto multiculturale non significa solo “sapere qualcosa in più”. Significa imparare ogni giorno a rinegoziare il modo in cui ci relazioniamo. Non si tratta di studiare tutte le tradizioni del mondo, ma di avere il coraggio di sospendere il nostro punto di vista, almeno per un attimo. Di chiederci: e se fosse il mio modo di vedere il mondo a non essere l’unico valido?
Ascoltare senza giudicare, osservare prima di agire, accogliere l’altro senza la pretesa di cambiarlo. È questa la vera competenza interculturale. Ed è una competenza che non si insegna in aula, ma che si affina nel tempo, in reparto, paziente dopo paziente.
Un abbraccio che passa attraverso la barriera
A volte basta un gesto. Una pausa in più. Una mano che si ferma un secondo più a lungo sul braccio. Una voce che rallenta. Un’interprete che traduce, sì, ma anche media tra due mondi. Sono piccoli atti, quasi invisibili. Ma dentro ci sta tutta l’essenza del nostro mestiere: rendere umano ciò che è estraneo, e familiare ciò che spaventa.
Infermieri e pazienti non sono mai due isole. Ma serve un ponte. E quel ponte siamo noi, ogni volta che scegliamo di non avere fretta, di guardare negli occhi, di metterci in discussione.
E allora la domanda è questa: se vogliamo davvero prenderci cura di chi è diverso da noi, non dovremmo prima prenderci cura di come ci poniamo davanti alla diversità? Forse il primo cambiamento non avviene quando impariamo nuove tecniche. Forse comincia nel momento in cui decidiamo di ascoltare con la mente aperta e il cuore disarmato.
Guido Gabriele Antonio
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