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Un gioco prima del bisturi: l’anestesia dell’anima per i bambini

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L’ansia preoperatoria nei bambini è un nemico silenzioso. Si insinua nei corridoi degli ospedali travestita da silenzio, da sguardi bassi, da domande non dette. Il bambino non sempre piange, ma quasi sempre teme. Temere ciò che non si conosce è umano. Ma quando questo umano lo vivono corpi piccoli, fragili, in camici troppo grandi, allora diventa un’urgenza invisibile, una priorità che non si legge nei parametri vitali, ma che esplode nel cuore e nella memoria.

Le alternative che parlano il linguaggio dei bambini

Per anni la risposta è stata automatica: farmaci. Sicuri, rapidi, misurabili. Ma oggi una nuova sensibilità infermieristica e pedagogica ci invita a guardare oltre la siringa.

La letteratura internazionale parla chiaro: esistono soluzioni non invasive che possono trasformare radicalmente l’esperienza chirurgica nei bambini. Realtà virtuale, terapia del gioco, musicoterapia, tecniche di rilassamento guidato e preparazione psicologica. Queste strategie non sono semplici accessori, ma veri strumenti terapeutici.

Non è solo questione di ridurre la frequenza cardiaca o l’agitazione durante l’induzione dell’anestesia. È questione di restituire dignità emotiva al paziente più piccolo, di offrirgli un linguaggio adatto a comprendere, esprimere, fidarsi.

Riflessione: il potere del simbolo

Cosa rappresenta una sala operatoria per un adulto? Spesso un luogo di paura, di passività, di resa. E per un bambino? È una giungla. Le luci, le maschere, le voci metalliche. In un mondo in cui il simbolico ha ancora più forza del reale un visore di realtà virtuale può diventare un ponte. Un gioco di ruolo con un peluche può diventare un rituale di iniziazione. Una voce calma può diventare l’ancora che evita la deriva. Il linguaggio dei bambini è fatto di immagini, non di protocolli. Sta a noi, professionisti della cura, trovare il canale giusto.

Benefici che si allargano

Ridurre l’ansia nei bambini non è solo un atto di amore, ma anche un vantaggio organizzativo. Bambini più sereni cooperano meglio, hanno meno necessità di sedazione, mostrano parametri più stabili, e il team sanitario lavora con meno pressione. La cura funziona meglio quando è più umana. Questo dovrebbe essere evidente, ma non lo è ancora abbastanza.

Eppure, a frenare l’adozione sistematica di queste tecniche ci sono resistenze strutturali e culturali: mancano spazi, strumenti, formazione e, soprattutto, mancano tempo e visione. Non si tratta solo di aggiungere un gioco prima della sala operatoria. Si tratta di ripensare l’intero processo di accoglienza dei bambini nel contesto chirurgico.

La vera domanda: cosa cura davvero?

Forse, in fondo, dobbiamo smettere di chiederci se queste tecniche funzionano e cominciare a chiederci cosa intendiamo per “funzionare”. Un intervento chirurgico è andato bene solo se non ci sono complicanze? O possiamo dire che è andato bene anche quando il ricordo che resta ai bambini non è trauma, ma comprensione?

Perché la medicina deve sempre rispondere alla malattia. Ma l’assistenza infermieristica può e deve rispondere anche alla persona nella sua interezza, anche quando quella persona ha cinque anni e non sa esprimere la propria angoscia.

Verso un’identità nuova della cura pediatrica

Serve una nuova grammatica della cura. Una in cui la tecnologia non si sostituisca alla relazione, ma la potenzi. In cui il gioco sia considerato dispositivo terapeutico, e non perdita di tempo. In cui l’infermiere sia ponte tra mondi: quello clinico e quello immaginario dei bambini. Ci stiamo avvicinando a questo ideale. Ma siamo pronti davvero a riconoscere che un sorriso può valere quanto una premedicazione?

Guido Gabriele Antonio

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