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CCNL comparto Sanità 2022 – 2024: tutti felici e nessuno contento

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Finalmente è arrivato.

Dopo mesi di attese, bozze, riunioni, sospiri e comunicati stampa più entusiasti di un bollettino di guerra, è stato firmato il nuovo CCNL Sanità 2025.
Un momento solenne: penne che scorrono, mani che si stringono, e un coro di “è un passo avanti importante” riecheggia ovunque.

Il contratto è servito.

E come ogni volta che qualcosa si firma in sanità, il Paese si divide: chi esulta, chi critica, chi non ha letto nemmeno una riga ma ha già un’opinione fortissima. Insomma, un classico tutto italiano.

La firma che (forse) non cambia tutto, ma almeno muove qualcosa

Gli aumenti? 172 euro lordi.
Gli arretrati? Circa 1.200 euro medi.
Nulla di miracoloso, certo, ma nemmeno il solito pugno di mosche. Un contratto che non farà gridare al trionfo, ma che — finalmente — ha riportato in moto la macchina negoziale.

E qui vale la pena precisare una cosa che spesso sfugge: chi ha firmato questo contratto si è garantito un posto al tavolo di quello che conta davvero — la contrattazione decentrata.

Quella dove si decide come ripartire i fondi, dove si definiscono i premi, dove si stabilisce quanta parte di quei fondi potranno diventare qualcosa di più concreto nella vita reale. Una decisione non priva di compromessi, certo, ma che ha permesso alla trattativa di non arenarsi — e di evitare che il contratto restasse sulla carta dei sogni (o delle polemiche).

Chi brinda, chi sbraita, e chi semplicemente torna in turno

I sindacati firmatari — Cisl, Fials, Nursind e Nursing Up — parlano di “contratto di equilibrio e responsabilità”.
I non firmatari — Cgil e Uil — lo definiscono “insufficiente e penalizzante”.

La realtà?

È che, come sempre, il turno di notte lo coprono comunque gli infermieri, indipendentemente da chi ha brindato o da chi ha sbattuto la porta.

Il vero spettacolo non è la firma, ma il dopo. Da un lato le conferenze stampa con le parole “storico”, “concreto”, “meritato”. Dall’altro, i comunicati indignati, le accuse di “svendita della categoria”, e la promessa dell’ennesimo “noi non ci stiamo”.
E in mezzo, i lavoratori veri — che si limitano a chiedere: “Ok, ma da domani, cambia qualcosa nei reparti?”

Un contratto che almeno restituisce un orizzonte

A guardarlo bene, questo CCNL non è né un miracolo né un disastro. È una di quelle riforme che non ti fanno saltare di gioia, ma nemmeno ti fanno venire voglia di scappare all’estero (almeno non subito).

Dentro ci sono piccole conquiste — il riconoscimento delle figure di “Infermiere Esperto” e “Specialista”, la formazione come orario di servizio, più tutele per chi subisce aggressioni — e un messaggio implicito: non si cresce se si resta fermi.

Criticare è facile, ma mantenere un equilibrio tra ideali e realtà — quello sì, è un mestiere da equilibristi.

Chi ha firmato ha scelto la strada più impopolare: quella di dire “intanto portiamo a casa qualcosa, poi discutiamo del resto”.
Una filosofia che in sanità conosciamo bene: lo stesso principio con cui ogni giorno si cura il possibile, in attesa di tempi migliori.

Il paradosso italiano della contrattazione eterna

Ogni tre anni lo stesso copione: si firma, si divide, si riparte.
E il bello è che, mentre ancora si discute di questo contratto, si prepara già il tavolo per il prossimo.
Una rotazione perfetta, quasi zen, che garantisce a tutti un ruolo: chi firma resta dentro, chi non firma resta contro, e chi lavora resta in servizio.

È la democrazia sindacale, bellezza: non perfetta, ma necessaria.
Perché anche il dissenso, se espresso con intelligenza, serve a spingere in avanti il sistema.
Ma serve anche chi, pur tra mille critiche, ha il coraggio di firmare — e di assumersi la responsabilità di far partire qualcosa, invece di aspettare che tutto sia perfetto per non partire mai.

Conclusione: tutti felici, nessuno contento (ma un po’ più vivi)

Alla fine, questo contratto non fa miracoli, ma rompe un immobilismo che durava da troppo.
Fa discutere, divide, irrita… ma almeno riporta la sanità pubblica nel suo naturale stato vitale: in movimento. E se la perfezione non è arrivata, almeno qualcosa si è mosso.
Un po’ come quando si riesce finalmente a liberare una vena ostinata: non è ancora la guarigione, ma è il segno che il sangue torna a circolare.

E allora, la domanda che resta — pungente ma sincera — è questa:

Meglio un contratto imperfetto che apre la strada, o un ideale perfetto che resta chiuso nel cassetto?

Guido Gabriele Antonio

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