Ha provocato tre morti e dodici feriti, il cedimento di un ballatoio di collegamento a Vela Celeste, fatiscente insediamento popolare del quartiere Scampia, a Napoli. Il crollo, verificatosi al terzo piano, ha coinvolto alcune strutture del secondo e del primo piano. Per sintetizzare il senso della tragedia abbiamo scelto di rilanciare il post di Federica, infermiera che nella tarda serata di lunedì scorso era in servizio all’ospedale pediatrico Santobono, dove sono ricoverate sette bambine. Ecco le sue parole, riproposte anche dall’associazione Nessuno tocchi Ippocrate.
“Stasera mi rompo proprio di andare a fare la notte. Erano poco dopo le 10, una macchina arriva all’impazzata, correndo, il clacson suonava imperterrito ancora prima di varcare il cancello dell’ospedale. Io e Federica ci guardiamo in faccia e alziamo gli occhi al cielo: ‘Sarà la solita febbre da poche ore’. Indossiamo i guanti, apriamo la porta del Pronto soccorso per uscire fuori a controllare.
‘Codice rosso, codice rosso, è caduto un ballatoio della Vela Celeste: stanno un sacco di bambini’, urlano i due uomini che portavano le due bambine, io e Federica le guardiamo in volto, sporche di terra e calcinacci, lacrime e sangue, la paura negli occhi. Suoniamo il pulsante di emergenza, senza conoscere nemmeno la gravità della situazione, le portiamo nella stanza dei codici rossi. Corrono tutti i miei colleghi, medici e infermieri, come una mandria ci siamo riversati tutti sulle piccole: parametri, accesso venoso, farmaci, ossigeno, sangue.
Mi giro verso uno dei due uomini che avevano portato le bambine: ‘Papà, vieni con me. Dimmi come si chiamano, così le registriamo’. Il mio sangue si è gelato e un brivido ha trapassato il mio corpo: ‘Io non sono il padre, non so nemmeno chi sono. Le abbiamo prese da sotto le macerie, ce ne stanno altri, non so nemmeno se i genitori sono vivi’. Sussulto, mi guardo intorno, i miei colleghi erano tutti nei codici rossi, arriva un’altra macchina, suonando all’impazzata come quella di prima.
Corro fuori, un signore mi aiuta a tirare fuori M. Il suo femore era totalmente staccato dal bacino, un frammento era quasi esposto. La portiamo insieme all’interno per ‘prendete una barella’, la appoggio sopra e, nemmeno il tempo di girarmi, eccole arrivare tutte, una dietro l’altra, sette bambine terrorizzate, sporche, bagnate, insanguinate. Mai, in cinque anni di pronto soccorso, mi sono sentita più persa, più inerme, più vuota, era tutto così surreale.
Non dimenticherò mai quei volti ricoperti di paura, le lacrime, lo shock sul viso di chi era presente e ha visto tutto, che senza titubare ha preso quelle bambine dalle macerie e le ha portate da noi, senza nemmeno sapere chi fossero.
‘Chi sono queste bambine? Come facciamo a registrarle, nessuno sa i nomi, nessuno sa chi siano’. Con un pennarello indelebile scriviamo dei grandi numeri sui loro toraci, per distinguerle, per poter capire cosa è stato fatto a chi. Sembra una scena di un episodio di Grey’s Anatomy, solo che in Grey’s Anatomy lo sai che alla fine tutto si risolve nell’arco della puntata.
Chiamo il mio reperibile dipartimentale: ‘Dottoressa, è crollato un ballatoio, ci sono sette codici rossi, è una maxi emergenza, noi non ce la facciamo’. E in un attimo eccoli arrivare tutti, i miei colleghi dalla Rianimazione, Pediatria d’urgenza e Chirurgia, pediatri dai reparti, neurochirurghi e rianimatori reperibili da casa, primari, ecografisti correre durante la notte con un unico scopo, aiutare.
Ho visto i miei colleghi del Pronto soccorso spendere tutte le loro forze per essere rapidi, professionali, preparati e impeccabili, nonostante il caos. Colleghi degli altri reparti, infermieri, oss e medici prodigarsi per un’emergenza che non era la loro ‘perché se ci siete voi, ci siamo tutti’. Ho visto le guardie giurate che avevano finito il turno trattenersi oltre l’orario a pulire le bambine dai calcinacci e a spostare le barelle per fare spazio. Ho visto specializzandi accanto alle bambine vigili che le accarezzavano e le rasserenavano nei limiti del possibile.
Sto cercando di mettere in ordine tutti i pensieri, di ricostruire nella mia mente le scene di quella notte infernale. Mi ricordo di questa zia educata e compita, la zia di tutte le bambine, che si spostava tra una barella e l’altra per stare vicino un po’ a tutte. Di quell’uomo biondo che tremava, tenendo la mano alla sua figlia più piccola, e le urla strazianti di dolore alla scoperta della più brutta delle notizie.
Mi ricordo gli occhi di quella patanella di Nunzia, che mi ha stretto la mano e mi ha detto: ‘Non ti preoccupare, io sto bene, dove sta mia sorella?’, Nunzia, amore mio, tu mi hai trafitto il cuore. Mi ricordo le lacrime sul volto dei miei colleghi, la notte passata ad aggiornare la pagina delle notizie, le ricerche fatte insieme sulle Vele di Scampia, e non riesco a togliermi questi pensieri dalla testa.
In tutta questa storia non ci sono vincitori e non ci sono eroi, ma solo in pochi possono capire come io sia orgogliosa delle persone che lavorano con me e che erano presenti in quella notte da incubo. Uomini e donne professionali, competenti, preparati, precisi, svelti, compassionevoli, dal cuore immenso, e io non ho parole per descrivere quanto vi stimi e sia fiera della nostra grande famiglia.
Se solo penso a tutto quello che è successo, comincio a piangere come se lo stessi vivendo ancora. Io non lo so quanto dolore è in grado di sopportare l’animo umano, so solo che questa vicenda mi ha fatto scoprire un limite che non pensavo esistesse.
Vorrei così tanto poter fare di più, poter essere migliore, poter avere le capacità di impedire che queste tragedie avvengano, ma mi rendo conto che di fronte a tutto questo noi siamo solo granelli di sabbia, e quindi ognuno di noi dovrebbe impegnarsi per dare sempre il massimo possibile, anche quando pensa che il massimo sia stato già raggiunto.
Non sono troppo poetica quando dico che il mio lavoro è una missione, e non immaginerei mai di svolgerla con persone migliori di quelle che sono accanto a me ogni giorno. Quindi grazie a ognuno di voi, perché mi fate scoprire, in ogni turno, che a volte anche un granello di sabbia può fare una differenza enorme”.
Parole toccanti, che Bruno Zuccarelli, presidente dell’Ordine dei medici di Napoli, commenta così: “Nelle parole dell’infermiera, divenute simbolo della tragedia di Scampia, c’è il senso autentico della nostra professione, fatta di abnegazione e di sacrificio, di momenti duri e di senso di impotenza. Essere al servizio della salute degli altri significa donarsi. Tutti coloro che lavorano in trincea, in prima linea, lo sanno bene che questi momenti, la commozione legata a queste parole, non si dissolvano nel caos di una società abituata a voltare pagina troppo velocemente”.
L’appello di Zuccarelli è rivolto a tutti i cittadini che troppo spesso si lasciano andare a scatti d’ira e violenza, dimenticando l’abnegazione e il sacrificio con cui il personale sanitari presta loro assistenza: “Questi medici e infermieri sono gli stessi che hanno lottato a mani nude quando siamo stati travolti dalla pandemia. Sono quelli che ci sono sempre, nel caos quotidiano come nelle maxi emergenze. Sono donne e uomini che mettono il cuore in tutto ciò che fanno e che, troppo spesso, devono avere paura delle stesse persone che cercano di curare”.
Redazione Nurse Times
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