Lavorare come operatrice socio-sanitaria (oss) significa spesso entrare in contatto con persone che convivono con malattie devastanti, come il Parkinson. In Rsa accudiamo i nostri ospiti – così li chiamiamo – con professionalità e cuore, accompagnandoli fino agli ultimi momenti della loro vita. Tuttavia non sempre ci soffermiamo a conoscere le loro storie, per timore di soffrire o di non riuscire a guardarli con l’innocenza necessaria a svolgere il nostro lavoro.
Oggi, però, voglio raccontarvi la storia di Mario (nome di fantasia), un uomo che ho conosciuto in ospedale durante un mio ricovero. A Mario, un gigante buono dal sorriso accattivante, è stato diagnosticato il Parkinson a soli 40 anni. “Sono stato il fortunato dei tre”, mi disse, con una serenità e un’ironia che mi colpirono. Alla mia domanda sul significato di quelle parole spiegò: “Eravamo in tre a fare l’esame. Uno aveva l’Alzheimer precoce, l’altro la Sla, io ho il Parkinson. Mi è andata meglio”.
Il calvario di Mario
La malattia di Mario iniziò con piccoli tremori che complicavano le attività quotidiane. Venne preso in carico dal CTO nel 2014 e iniziò una terapia basata su cerotti a rilascio lento (Neupro). Tuttavia un effetto collaterale devastante della cura furono le pulsioni sessuali incontrollabili, che provocarono vergogna, isolamento sociale e incomprensione, persino da parte dei familiari.
Mario cadde in una depressione profonda. La sua vita sociale si sgretolò, non riusciva più a gestire l’azienda di famiglia. “Lo specchio era il mio peggior nemico – mi confessò -. Non mi riconoscevo più. Ero un gigante di due metri e zero cinque, ma non riuscivo a tenere ferma la mano. Mi chiamavano ‘il gigante tremolante'”.
Una seconda possibilità grazie alla DBS
La svolta arrivò quando la sua compagna lo indirizzò all’ospedale Mondino di Pavia. Dopo un iter diagnostico approfondito, gli venne proposto un intervento di DBS (Deep Brain Stimulation). Si tratta di una procedura invasiva che prevede l’inserimento di elettrodi in una zona specifica del cervello, collegati a un neurostimolatore simile a un pacemaker. L’intervento, eseguito con il paziente sveglio per monitorarne le capacità cognitive, durò sette ore e mezza.
L’operazione, svolta sotto la guida esperta del professor Domenico Servello al Galeazzi di Milano, cambiò la vita di Mario. Alla mia domanda se avesse avuto paura, rispose: “No. Non avevo più niente da perdere. La mia vita stava precipitando troppo velocemente”.
La vita oggi: non mollare mai
A 61 anni Mario si descrive come un uomo che non si arrende. “Ho rivisto le priorità della mia vita. Ho venduto l’attività, sono diventato nonno. Ogni anno mi ricovero per dieci giorni per regolare i parametri degli elettrodi, ma poi torno al mio quotidiano. Sono ancora un cavallo da corsa, come il grande Varenne”.
Il peso delle malattie invisibili
Quella di Mario è una storia di forza e resilienza, ma anche di sofferenza e solitudine. Noi oss vediamo spesso ciò che resta di queste persone nelle Rsa: vite consumate dalla malattia, che cerchiamo di alleviare con gesti quotidiani di cura.
Il Parkinson, come tante altre patologie, lavora in silenzio, distruggendo lentamente il corpo e l’anima. Ma storie come quella di Mario ci ricordano che, anche di fronte alle difficoltà più grandi, non bisogna mai arrendersi. Siamo qui per loro. Per dare dignità, conforto e, quando possibile, un sorriso in mezzo alla tempesta.
Marialuisa De Palo
Operatrice socio-sanitaria
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