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Paradosso medici: in Italia sono tanti, ma li trovi solo se paghi di tasca tua. Perché?

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Manovra, le risorse previste per la sanità nel 2025 fanno arrabbiare i medici. Anaao Assomed: "Pronti alla protesta"
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Nella rubrica Dataroom, curata per il Corriere della Sera, la giornalista Milena Gabanelli approfondisce il tema dei camici bianchi in Italia.

Quanti sono davvero i medici in Italia? La domanda richiede una risposta precisa, perché le lunghissime liste d’attesa con il Servizio sanitario nazionale vengono giustificate con la carenza di medici. Medici che improvvisamente compaiono, anche dentro la stessa struttura, se paghi di tasca tua. Com’è possibile?

Per esercitare la professione, sia nel pubblico sia nel privato accreditato (con il Servizio sanitario nazionale) sia nel privato puro (solo a pagamento), è obbligatoria l’iscrizione all’Ordine professionale. La fonte più attendibile per capire è quindi la Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo). Al 31 dicembre 2024 gli iscritti all’Albo dei soli medici sono 415.868, pari a 7,04 ogni 1.000 abitanti. Più dell’Italia, solo la Svezia (7,29). Seguono Germania (6,56), Spagna (5,89), Regno Unito (3,97) e Francia (3,3).

Ma cosa nascondono questi numeri, visto che, senza pagare, è davvero problematico accedere alle cure in tempi accettabili? Facciamo i conti con Antonio Magi, responsabile del Centro studi Fnomceo. 

Dove lavorano i pensionati

Per capire perché l’accesso alle cure pubbliche è così difficile, bisogna disaggregare il dato iniziale di 415.868 medici iscritti all’albo. Il primo passo è sottrarre gli 89.228 pensionati che, per legge, non possono più lavorare per il Servizio sanitario nazionale. Di questi, però, ben 41.623 continuano a esercitare nel settore privato, dove il medico è generalmente retribuito in percentuale sul costo delle prestazioni eseguite, e di conseguenza prevale la spinta per le prestazioni a pagamento.

Gli specialisti fuori dal pubblico

Il numero di medici teoricamente disponibili per il sistema pubblico scende così a 326.640. Ma anche questa cifra è illusoria. Un’analisi più approfondita rivela che quasi un terzo di loro (98.719 professionisti, il 30%) opera completamente al di fuori del Servizio sanitario nazionale: 38.985 lavorano all’estero, 40.588 sono puri liberi professionisti e 19.146 operano esclusivamente nel privato.

I medici sul territorio

A questo punto, per misurare la reale capacità del sistema pubblico, bisogna scendere ancora di un livello. A disposizione nelle strutture pubbliche e private accreditate restano quindi solo 227.921 medici, di cui 18.290 lavorano nel privato accreditato. Sul territorio operano invece 37.860 medici di medicina generale, 6.681 pediatri di libera scelta, 19.713 medici della continuità assistenziale, 2.362 del 118, mentre altri 15.671 in ruoli specifici come la sanità penitenziaria e gli specialisti ambulatoriali territoriali. 

Chi resta negli ospedali pubblici

Sottraendo tutte queste categorie, si arriva a chi davvero lavora negli ospedali e negli ambulatori pubblici: 127.344 medici. Di questi, solo 95.159 sono specialisti, mentre 32.185 sono medici assunti senza specializzazione, un residuo di normative passate (negli anni Ottanta si poteva entrare anche senza specializzazione). 

Ecco allora che dai 7,04 medici ogni 1.000 abitanti si crolla a soli 1,61 specialisti ospedalieri assunti direttamente dal Servizio sanitario nazionale. E il 42% di questi, per integrare stipendi più bassi della media europea, svolge anche attività privata a pagamento.

L’eterno alibi

Le cause storiche della crisi, e che vedono responsabilità trasversali sia ai governi di centrodestra sia ai governi di centrosinistra, sono note: per 14 anni, dal 2005 al 2019, il blocco del turnover ha impedito di sostituire i medici che andavano in pensione. A questo si è sommata un’errata programmazione che, tra il 2010 e il 2019, ha lasciato 11.652 neolaureati senza una borsa di specializzazione a causa del cosiddetto imbuto formativo. Il risultato è stato lo svuotamento progressivo delle corsie ospedaliere.

Ma gli sbagli dei decenni scorsi non possono essere un eterno alibi per giustificare come la sanità pubblica stia diventando un affare privato. Dal 2017 i posti a Medicina sono più che raddoppiati, ma poi nelle Scuole di specializzazione restano scoperti interi settori considerati poco attrattivi. L’analisi delle assegnazioni per le 14.493 borse di studio del 2025-2026, che si sono appena concluse, è per l’ennesima volta emblematica.

Si registra ancora il 100% di borse assegnate in specialità con un forte potenziale di guadagno con l’attività a pagamento, come dermatologia, chirurgia plastica, ortopedia e ginecologia. Al contrario, rimangono poco ambite le borse in discipline fondamentali per il sistema pubblico: vanno deserti il 79,6% dei posti in microbiologia e virologia, il 64,7% in Radioterapia e il 43,7% in medicina d’emergenza urgenza. Un dato che si scontra drammaticamente con la crisi quotidiana dei pronto soccorso, dove i medici mancano più che in ogni altro settore.

Il problema, quindi, non è il numero totale di medici, ma la drammatica perdita di attrattività del Servizio sanitario nazionale. La vera sfida non è solo formare specialisti, ma convincerli a lavorare per il pubblico e dove serve, specialmente in quelle discipline essenziali che non offrono sbocchi nell’attività privata. La soluzione è inevitabilmente economica, ma non solo.

I problemi da risolvere

Bisogna innanzitutto pagarli adeguatamente, e pagarli di più per le specialità che non si prestano all’attività a pagamento. E poi occorre intervenire sulla pianificazione:

  • ridurre per esempio il numero di posti disponibili in Chirurgia plastica o Dermatologia, in modo da spingere i neolaureati verso specialità che ora disertano;
  • rivedere i bandi, incentivando la partecipazione a quei concorsi pubblici riservati agli ospedali periferici, dove nessuno ambisce lavorare. 

Le Leggi di Bilancio per il Contratto 2022-2024 stanziano risorse per un aumento di 438 euro lordi mensili, un’indennità di 23 euro mensili e un bonus fino a 800 euro per chi opera nei pronto soccorso. Ma prima ci sarà la trattativa tra l’Aran che rappresenta lo Stato e i sindacati, ormai alle porte, ma potrebbe durare mesi. È fondamentale invece fare in fretta.

Per invertire la rotta servono poi carriere basate sul merito e condizioni di lavoro che non spingano i medici al burnout. Senza questi pilastri, continueremo a raccontare il paradosso di un Paese pieno di medici, ma con un servizio pubblico troppo spesso inaccessibile se non a pagamento.

E non sono certo i provvedimenti tampone a cambiare le cose. La norma che permette ai medici inquadrati nel Servizio sanitario nazionale di lavorare fino a 72 anni, pensata per arginare l’emorragia, si sta rivelando un fallimento: non aderisce quasi nessuno. Chi decide di continuare, semplicemente, fugge nel privato. Qualcuno al ministero è in grado di elaborare una motivazione per farli restare nel pubblico?

Redazione Nurse Times

Fonte: Corriere della Sera

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