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Oltre il comma 566 si può

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comma 566

Quando si parla di Infermieri raramente si scende nella quotidianità delle attività, ci si interroga sul lavoro che eseguono, del loro apporto alle “cure” del paziente, della co-partecipazione o collaborazione agli “esiti” della medicina rispetto alle malattie ed alla tutela della salute.

Rimane un gap informativo che non riesce a colmare la distanza, reale o fittizia, tra assistenza e cura, come se le due azioni avessero percorsi diversi e non invece integrati. E’ forse un falso problema? Se è un falso problema in cosa è fallace questa affermazione?

Potremmo cominciare con il dire che sarebbe giunto il momento di provare realmente ad integrare i due percorsi, perché inscindibili non per le professioni ma per il paziente. Nella cultura sanitaria moderna la centralità del paziente è l’obiettivo da raggiungere, una centralità fin troppo annunciata ma quasi mai praticata perché ancora troppe sono le difese di categoria che impediscono di fatto quanto si vorrebbe affermare.

Ma se per un attimo concentrassimo il focus, togliendo dallo spazio di analisi colui che riceve la “cura”, sugli attori del gesto ci accorgeremo delle differenze? Cosa caratterizza gli uni (gli infermieri) e cosa caratterizza gli altri (i medici)?

In un tempo non molto lontano era ovviamente tutto molto chiaro, imperava una organizzazione piramidale dove il medico aveva senza alcun dubbio il primato delle decisioni, un primato assoluto e le altre figure fungevano da supporto affinché la sua azione avesse l’esito sperato.

Ad un certo punto, almeno in Italia piuttosto che in altri Paese, gli Infermieri hanno cominciato a chiedere un diverso riconoscimento della loro opera all’interno dei percorsi di cura, provando a staccarsi dalla clinica intesa come diagnosi ed provando a far emergere la clinica intesa come assistenza.

Un percorso arduo che pareva raggiunto quando, all’alba del nuovo millennio, quel riconoscimento veniva di fatto ottenuto attraverso l’approvazione delle legge 42/99 che riconosceva agli operatori “paramedici” ed “ausiliari“ la patente di “professionista sanitario”.

Quello che doveva essere un nuovo punto di partenza si è rivelato, nel corso degli anni a seguire, un traguardo impedendo di fatto alla Professione Infermieristica di evolvere nel campo della autonomia professionale, rimasta per lo più sulla carta e quasi mai entrata nelle Unità Operative.

Tralasciando gli aspetti normativi, sul quale sarebbe meritoria un’analisi giuridica approfondita, sarebbe significativo poter dare un “peso” al lavoro svolto dagli Infermieri ma questo non è possibile farlo nonostante gli aspetti di cura ed assistenza vivano sulla valutazione degli esiti rispetto agli interventi proposti.

E’ possibile sostenere che ci sia stata un’evoluzione nel lavoro quotidiano degli Infermieri? In che modo è possibile sostenere questa tesi paragonando le attività svolte oggi rispetto a quelle ante 1999?

Il problema è che, nonostante la formazione di base si sia appropriata delle istituzioni accademiche, questa differenza è difficile da poter riscontrare nella pratica di tutti i giorni.

Nelle corsie ospedaliere raramente vengono messe in pratica tutte quelle nozioni che si apprendono durante il triennio del corso di laurea, non a caso i laureati in Scienza Infermieristiche nel momento in cui varcano la porta del mondo del lavoro trovano davanti a loro uno scenario ben diverso da quello che veniva descritto sui libri o durante le lezioni. Nulla conta il tirocinio per poter dar loro la percezione reale della realtà.

Questa dicotomia tra aspirazione e realtà è resa ancora più pesante dall’insufficiente apporto degli stessi Infermieri che nel corso di questi 15 anni non sono riusciti a portare avanti un percorso di valorizzazione accademica che puntasse nel breve – medio termine alla formazione di una classe di Professori Universitari propri della professione che potesse guidare l’evoluzione anche formativa, evoluzione anche questa ferma sulla carta e mai espressa nella quotidianità.

Anche lo scontro professionale che da sempre accompagna Infermieri e Medici appare mitigato come se non esistesse o facente parte solamente di diatribe meritevoli solo di comparire per riempire pagine di giornali e favorire le analisi degli esperti.

Durante i turni non è apprezzabile la tensione legata alle competenze professionali, ogni professionista conosce perfettamente il proprio posto e tutto appare svolgersi con regolarità ma bisognerebbe dire professionalità.

Dunque tutte le polemiche che si sono susseguite dopo l’emanazione del famoso comma 566 sono state il frutto di una mistificazione della realtà?  La classe medica non è quella corporazione conservatrice che gli Infermieri vorrebbero scardinare?

In parte, lo dico da Infermiere, si.

In quel comma, dove si parla in maniera generica di competenze avanzate, non c’è nulla che sappia spiegare agli Infermieri perché sia giusto perseguire quanto, tra l’altro, già prevedeva la legge 42/99 all’atto della sua emanazione.

Il valore accademico del corso di Laurea non aveva come obiettivo quello di licenziare nuovi “Dottori” ma le sue mire erano molto più specifiche, ovvero di formare Infermieri capaci di assumersi quelle responsabilità che la legge 42/99 non identificava nello specifico ma che erano declamate in altre disposizioni legislative oltre che nel codice deontologico.

Se il passaggio dal corso regionale triennale al quello accademico non ha prodotto l’autonomia tanto auspicata non è soltanto un problema legislativo ma interviene anche un problema culturale.

In quel delicato passaggio, nel tentativo nobile di non lasciare nessuno indietro, si è deciso di equiparare i titoli commettendo probabilmente l’errore che ha impantanato gli Infermieri.

La cultura che permeava gli Infermieri del fine secolo scorso non aveva nell’autonomia decisionale alcuna rivendicazione reale. Gli Infermieri, con professionalità e diligenza, svolgevano il loro compito di assistenza al paziente eseguendo tutte le mansioni previste dal loro profilo.

Quegli Infermieri, di cui vanto con orgoglio l’appartenenza, si sono ritrovati d’un tratto apparentemente “autonomi” fatto salvo che nessuno aveva spiegato loro “quale autonomia praticare”.

In questo deserto formativo hanno continuato a lavorare con la stessa professionalità ed a poco a poco si sono viste le loro equipe integrate di giovani Infermieri che giustamente reclamavano il riconoscimento del loro titolo accademico non nelle diciture della divisa ma nell’attività professionale.

Piccolo inciso personale per specificare quanto affermo: nel 1999 ero inserito nell’equipe di Dialisi ed Emodialisi dell’Ospedale di Ivrea (TO), allora inserita nella ASL 9.  All’epoca nessun collega colse la grande opportunità della legge 42/99 e come Infermieri di Dialisi avevamo indubbiamente un prestigio particolare ovvero quello di avere conoscenze tecniche molto specialistiche nonché un’autonomia prevista da protocolli interni per la gestione del paziente durante la seduta dialitica. Quando nel 2007 sono tornato a lavorare in un Centro Dialisi, questa volta in Toscana a Firenze, non ho percepito  alcuna differenza. La mia autonomia era inserita dentro una collaborazione di equipe che non prevedeva nulla di diverso rispetto al mia prima esperienza piemontese, eppure erano passati 8 anni!

Non era possibile guidare meglio quella che doveva essere una rivoluzione culturale? Ma soprattutto non doveva essere prioritario farlo coinvolgendo tutti gli attori di cura del paziente, il medico in primis?

In questo passaggio forse c’è stato una presunzione, comprensibile ma non giustificabile, ovvero che essendoci la “norma” allora tutti ci sarebbero dovuti adeguare.

In un contesto di azione dove viene rimarcata a gran voce la collaborazione in equipe, sarebbe stato più opportuno concordare sin da subito, proprio perché intervenuta la norma, quali fossero le competenze da sviluppare e successivamente formare, in visione del Corso di Laurea.

In questo contesto, pur riconoscendo nella classe medica una certa rigidità in termini di tutela professionale, forse le cose sarebbero andate diversamente ed oggi non saremo qui a trattare argomenti triti e ritriti che sono diventati con il tempo stucchevoli e noiosi.

In una fase di crisi delle professioni in genere, a causa anche di un sistema che predilige la prestazione alla progettazione, appare alquanto antistorico parlare di evoluzione delle competenze non fosse altro che corriamo il rischio davvero di far perdere ulteriore campo nella capacità del cittadino di riconoscere al professionista il suo valore.

Mente gli Infermieri continuano a eseguire “prestazioni” del tutto identiche rispetto al 1992 (anno della mia abilitazione professionale) il sistema si dichiara “non sostenibile” e di conseguenza prova a “sostenersi” attraverso l’attribuzione di competenze che non mirano affatto ad una migliore assistenza al paziente ma ad un economicismo che mette a rischio il paziente stesso. La famosa proposta del Presidente Rossi di sostituire gli Infermieri con gli OSS non è stata una svista politica ma nel concetto generale di economicità, la perdita del valore del “capitale umano” come risorsa del sistema ha una sua precisa strategia ovvero garantire lo stesso prodotto a minor costo possibile e se il prodotto (ovvero la prestazione sanitaria) non viene riconosciuto come atto professionale si perde l’univocità del professionista, sia esso Infermiere o Medico.

Il “rischio”, onde evitare polemiche con i colleghi, non sta nella esecuzione “tecnica” di una prestazione ma nella capacità di non perdere la visione d’insieme della mission ultima di una professione sanitaria ovvero la tutela della salute come esplicitato nel dettato costituzionale all’articolo 32.

Ma dato il periodo storico, de-finanziamento dei fondi per il Servizio Sanitario, riduzione sistematica dei servizi con l’accentramento e l’accorpamento degli stessi a cui potremmo aggiungere i blocchi contrattuali, i blocchi del turnover con la perdita di professionisti che non vengono sostituiti, quello che ci si sarebbe dovuti aspettare non è una battaglia sulle competenze ma soprattutto una nuova “primavera” per rivendicare il ruolo centrale delle professioni rispetto al Sistema.

Questo non avviene, il sospetto è che in ogni caso la destrutturazione del Servizio Pubblico aprirà altre porte, gli Infermieri corrono il rischio  di voler a tutti i costi profittare della situazione per vedere riconosciuta la loro professionalità. In questo quadro, dove la battaglia non è in funzione della tutela del cittadino ma della conservazione corporativa, quello che intravedo è una rischiosa operazione che metterà gli Infermieri a dover scegliere se evolvere in un contesto di gioco contrattuale al ribasso, più competenze, più responsabilità a costo zero.

Forse questo è quanto aspira chi vuole a tutti i costi un posto nella storia, sarebbe opportuno chiedere agli Infermieri cosa pensano prima di scaraventarli in un mondo che potrebbe essere peggiore.

I Dirigenti hanno la responsabilità di guidare questa professione al suo miglioramento e la proposta è presto fatta: se davvero vogliamo poter contare sui PDTA occorre che mettiamo in gioco il nostro lavoro permettendo di essere misurati.

Ad oggi questa è l’unica proposta che ancora non è uscita nel pallottoliere della professione.

Piero Caramello

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