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Il diritto di non esserci: riprendersi il tempo nella società della connessione perenne

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Viviamo in un’epoca in cui il confine tra lavoro e vita privata è diventato sempre più labile. La connessione costante ci ha resi sempre disponibili, fino a farci perdere il diritto – e l’abitudine – di disconnetterci davvero. E-mail, messaggi, social: ogni strumento sembra richiedere una presenza continua, come se il valore di una persona dipendesse dalla sua reperibilità. Quella stessa reperibilità, fatta di ansia di ottimizzazione e che appartiene a una società sempre connessa, riesce a penetrare in quel luogo che appartiene solo e soltanto alla sfera personale del privato.

Il problema non è solo individuale, ma culturale: il mito della produttività ci ha convinti ormai che il confine lavoro/vita privata debba necessariamente essere sconfinato e che fermarsi sia una debolezza. Questo porta a una spirale pericolosa: fatichiamo a staccare senza provare ansia e, allo stesso tempo, ci aspettiamo che anche gli altri siano sempre disponibili. Il rispetto dei tempi personali è stato sacrificato in nome dell’efficienza, come dimostra la facilità con cui si passa dalle e-mail ai messaggi Whatsapp, ignorando l’out of office o la possibilità che l’altra persona, semplicemente, abbia bisogno di spazio e che non voglia aprire il sipario del palco su cui andare in scena.

Negli ultimi dieci anni, secondo alcune statistiche, sia la generazione Z che i millennial hanno avuto difficoltà nell’impostare il temuto out of office, preferendo di non cadere nella Fomo (Fear of Missing Out). Il rischio è di trasformare ogni momento libero in un’occasione per essere più produttivi, perdendo di vista il confine tra sfera personale e professionale e, di conseguenza, trattando il tempo come una risorsa da ottimizzare, anziché un bene da vivere.

Nel mondo anglosassone questa eterna reperibilità ha preso il nome di freelance anxiety. A differenza di un dipendente con orari e confini più definiti, un freelance si trova spesso in una condizione di reperibilità costante, con il timore che ogni opportunità persa possa compromettere la sua carriera.

Come possiamo riprendere il controllo? Innanzitutto dobbiamo legittimare l’assenza: mettere un out of office senza sentirci in colpa, non rispondere subito ai messaggi, concederci il diritto di esistere al di fuori della dimensione lavorativa. E allo stesso tempo imparare a rispettare il tempo degli altri, evitando di considerarli sempre accessibili e disponibili.

L’identificazione con il lavoro ci ha fatto perdere di vista lo spazio intimo, quello in cui costruire la felicità e il senso della vita. Il luogo in cui mostrare tutta la complessità di esseri umani e quello in cui sviluppare l’ascolto, quella sottile capacità che porta a essere persone migliori, anche per il mondo fuori. La narrazione dominante ci ha raccontato che il nostro valore nella società dipende dal lavoro e che il lavoro è la misura del nostro successo. 

Cosa è rimasto, quindi, della nostra sfera privata? L’abbiamo persa o abbiamo lasciato che la società della performance se la prendesse? Il vero equilibrio non sta nel gestire meglio il tempo per essere più efficienti, ma nel riconoscere il valore del riposo, della privacy e dello spazio personale. In un mondo che pretende la nostra presenza continua, forse la libertà più grande è saper dire “non ci sono”. Buon diritto di disconnessione.

Anna Arnone

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