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I Moduli Focali Professionale (MFP): strategie di analisi e intervento per lo sviluppo di competenze infermieristiche avanzate.

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I Moduli Focali Professionale (MFP): strategie di analisi e intervento per lo sviluppo di competenze infermieristiche avanzate.
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I Moduli Focali Professionale (MFP): strategie di analisi e intervento per lo sviluppo di competenze infermieristiche avanzate

 

 

Parole chiave:

Moduli Focali Professionali; non technical skills; ricerca azione; lavoro di gruppo; formazione-intervento

Astract

Il compito di promuovere e sostenere il cambiamento è sempre più richiesto ai professionisti che operano in sanità ed ai loro dirigenti, che devono quindi dotarsi di strumenti di progettazione e gestione della risorsa umana, capaci di integrare alle conoscenze tecniche e relazionali le non technical skills .

Scopo del presente progetto è quello di sostenere e gestire l’inevitabile cambiamento in corso, costituendo all’interno di una Unità Operativa un modello formativo, per lo sviluppo di competenze trasversali, sia tecniche  che non tecnica skills, che fonda la sua ragione d’essere sulla valorizzazione del lavoro in piccolo gruppo.

Questo, con la finalità di supportare il modello organizzativo dell’Unità Operativa, lo sviluppo e la crescita dei livelli motivazionali negli operatori sanitari, ed indurre di conseguenza una crescita degli standard qualitativi e quantitativi dell’organizzazione sanitaria oggetto di intervento.

Innumerevoli fonti bibliografiche avvalorano l’ipotesi che un clima organizzativo stimolante, motivante e che valorizza le potenzialità dei professionisti che lo compongono, è un fattore fondamentale per la crescita qualitativa del servizio prestato all’utente.

Il presente elaborato vede la presentazione di un modello formativo che si basa sulla realizzazione, all’interno di una Unità Operativa (U.O.), di piccoli gruppi di lavoro, denominati Moduli Focali Professionali (MFP).

In sostanza, nella U.O. oggetto dell’intervento, dopo la costituzione e la formazione dei gruppi, l’intero bagaglio conoscitivo assistenziale dell’U.O., sarà scomposto in sotto argomenti. Esso verrà assegnato ad ogni singolo MFP, il quale provvederà a rielaborarlo, farlo proprio, renderlo vivo, fare ricerca (con basi E.B.N.) e dargli nuova vita con l’apporto di rinnovati ed aggiornati contenuti scientifici, per poi trasmetterlo ai propri colleghi ed ai neofiti. Essi faranno altrettanto. I MFP sono costituiti da una o più persone che, lavorando all’interno di una U.O., diventano responsabili di una parte del bagaglio di conoscenze presente nella loro organizzazione.

Questo mutuo scambio, che genera crescita di conoscenze, tecniche e relazionali, è la base per la costituzione di una organizzazione per l’apprendimento e degli stessi MFP, e di un processo di formazione sul campo che è di grande rilevanza, come vedremo, per la formazione degli adulti.

Fonti teoriche dei Moduli focali Professionali

Di seguito sono illustrate le principali fonti teoriche e metodologiche, che abbiamo utilizzato per ideare i MFP, tale revisione critica della letteratura, ha lo scopo di supportare il modello formativo in analisi, e rafforzare le non technical skills infermieristiche, con fonti teoriche validate e sperimentate in diversi ambiti: teorie gestionali, teorie di ispirazione pedagogica, andragogica, sociologica e psicologica.

Vediamole nello specifico, mantenendo come filo conduttore della nostra esposizione, il nostro obiettivo, cioè la costituzione e il sostegno alla validità dell’impiego dei MFP, al fine di aumentare i livelli di competenza e motivazionali dei professionisti dell’assistenza infermieristica.

Le Non Technical Skills (Abilità Non Tecniche o NTS)

Con questo termine si fa riferimento ad “abilità cognitive, comportamentali e interpersonali che non sono specifiche dell’expertise tecnica di una professione,  ma sono ugualmente importanti ai fini della riuscita delle pratiche operative nel massimo della sicurezza”[1] ; le Non-Technical Skills (NTS) sono complementari alle competenze di carattere tecnico ed in grado di contribuire all’attivazione di performance maggiormente efficaci e sicure.

In letteratura vengono individuate sette  Non-Technical Skills, che possono essere così riassunte:

  • consapevolezza situazionale: capacità di raccogliere le informazioni e di interpretarle correttamente; questa competenza, caratterizzata inoltre dalla capacità di anticipare i possibili scenari futuri, è un prerequisito indispensabile per la sicurezza in ambienti complessi e dinamici e, non a caso, è indicata come fattore causale in numerosi incidenti, specie nell’aviazione e nell’aeronautica;
  • decision-making: capacità di adeguata definizione dei problemi, di considerare le diverse opzioni e di selezionare ed implementare queste ultime;
  • comunicazione: capacità che comporta l’invio e lo scambio di informazioni chiare e concise, la ricezione di tali informazioni, l’ascolto e l’identificazione di quelle che possono essere le “barriere” del processo comunicativo;
  • teamwork: si caratterizza per la capacità di supportare i collaboratori/colleghi, di risolvere i possibili conflitti, di scambiare informazioni e di coordinare le diverse attività;
  • leadership: fa riferimento ad un ottimale utilizzo dell’autorità, alla pianificazione e definizione delle priorità, alla gestione dei carichi di lavoro e delle risorse;
  • gestione dello stress: capacità di identificare correttamente gli eventuali sintomi dello stress, di riconoscere i suoi effetti e di implementare le più efficaci strategie di coping;
  • capacità di fronteggiare la fatica: in maniera correlata alla competenza precedente, prevede l’identificazione dei sintomi della fatica, il riconoscimento dei sintomi di quest’ultima e l’implementazione di strategie di coping.

 Il lavoro di gruppo

Numerose possono essere le definizioni di gruppo, ma quella che si ritiene utile in questo contesto, nel quale si fa riferimento al gruppo di lavoro, è: una pluralità di persone impegnate a integrarsi in vista di uno scopo comune, con un sistema di regole condiviso e con ruoli reciproci e interdipendenti.

Tali persone interagiscono in maniera regolare, le loro interazioni hanno un carattere stabile e prevedibile. Il gruppo è qualcosa di più della somma dei suoi membri: è un’entità a se stante, con una propria struttura, finalità specifiche e relazioni particolari con altri gruppi.

I membri di un gruppo efficace si percepiscono come interdipendenti, cioè parte di un tutto dinamico che persegue scopi comuni, e accettano i limiti che l’appartenenza al gruppo inevitabilmente impone al singolo.

La principale giustificazione organizzativa dell’incentivare la costituzione di gruppi di lavoro, come possono essere i MFP, è rappresentata dall’aspettativa di un prodotto/servizio quantitativamente e qualitativamente migliore di quello che ciascun membro può garantire da solo: per fare un esempio, un gruppo apprende di solito più rapidamente dei singoli individui; è probabile che un gruppo riesca a prendere decisioni più rischiose e più risolutive di problemi di quelle assunte da singoli operatori.

I ruoli nel gruppo

Uno dei punti di forza del gruppo è la possibilità di valorizzare le differenze nelle competenze professionali ed esperienziali, nei modi di vedere i problemi e nelle attitudini personali presenti al suo interno. Per ottenere questo risultato è necessario che il gruppo si dia una struttura assegnando dei ruoli.

Alcuni ruoli possono avere carattere formale, per esempio quello del leader, il moderatore delle riunioni e di segretario; molti altri sono invece informali, anche se può essere opportuno che il capo li espliciti e li riconosca a mano a mano che le persone mostrano di saperli esercitare.

Di seguito sono presentati i ruoli presenti all’interno del gruppo: il realizzatore e il risolutore di problemi. Importanti per presiedere il risultato; il metodologo e il negoziatore, che agevolano lo svolgimento del lavoro; il facilitatore, che contribuisce a creare un buon clima relazionale; il creativo, capace di garantire qualità e innovazione ecc..

Il modo di esercitare un ruolo cambia sulla base di vari fattori, in particolare delle esperienze precedenti in quel ruolo; dal livello di motivazione e delle relazioni che si stabiliscono nel gruppo.

A titolo di esempio, il risolutore di problemi può ricoprire questo ruolo facendo riferimento a situazioni simili, o suggerendo un’interpretazione nuova di fatti conosciuti, o mediando tra le proposte di soluzioni presentate da vari colleghi.

In ogni gruppo, comunque strutturato, bisogna evitare che il sistema di ruoli diventi troppo rigido, al contrario, i ruoli devono poter cambiare con il tempo e con il mutare delle situazioni.

Tra i ruoli assegnati o assunti all’interno di un gruppo spicca per importanza quello del leader, cioè della persona che esercita la maggior influenza sugli altri membri del gruppo. Vi sono momenti nei quali l’attenzione del gruppo è focalizzata sugli obiettivi da realizzare e sulle attività e i compiti da svolgere: ciò che spetta al capo è chiedere e fornire informazioni, chiarire obiettivi, valutare proposte e così di seguito.

Ma vi sono anche circostanze nelle quali, a causa di eventi esterni o interni, il gruppo si deve concentrare sul fine del proprio mantenimento. In tali occasioni il leader è chiamato principalmente ad incoraggiare, manifestare apprezzamento, facilitare l’espressione di opinioni di minoranza, favorire il compromesso, risolvere conflitti ecc.

E’ difficile incontrare persone che abbiano in grado elevato le abilità necessarie per entrambi i tipi di comportamento suddetti, ma è doverose per ogni leader sforzarsi di acquisirle.

La Formazione – Intervento

La formazione – intervento è un processo di apprendimento che porta un gruppo di persone a condividere presupposti, contenuti, modalità e soluzioni di cambiamento e movimento in un’organizzazione.

Il cambiamento è finalizzato a un miglioramento e il movimento è condizione del suo perpetuarsi e del suo sviluppo.

Crozier e Friedberg affermano: “chiamiamo apprendimento collettivo il processo attraverso il quale un insieme di attori, partecipi di un sistema di azione, apprendono – vale a dire inventano e fissano – nuovi modelli di gioco, con le loro componenti affettive, cognitive e relazionali.

Tali giochi o, se si vuole, questa nuova prassi sociale, esprimono e inducono al contempo una nuova strutturazione del campo, il che significa non solo altri metodi, ma anche altri problemi e altri risultati, nonché un sistema d’azione regolantesi altrimenti “[2].

Con la formazione – intervento prende cioè il via un processo con cui un gruppo sempre più largo, mettendo in gioco le proprie competenze, valori e anche pregiudizi e affrontando assieme un problema complesso, finisce per condividere le modalità utilizzate per giungere a soluzioni progettuali nuove,  oltre che le soluzioni stesse. Modalità che servono anche successivamente per risolvere assieme problemi diversi.

La Ricerca Azione (RA)

La RA, cosi come è stata concepita dal suo fondatore Kurt Lewin, utilizza la soluzione di problemi specifici in ambito organizzativo e formativo, mediante l’analisi e la presa di consapevolezza delle “dinamiche dei gruppi” da parte degli stessi membri appartenenti ad una popolazione oggetto di studio.

Una definizione di RA, viene tentata da Rapoport (1970), affermando che essa è una ricerca sociale applicata, caratterizzata dal coinvolgimento immediato del ricercatore nel processo d’azione.

Il punto di forza della RA, è quello di costituire un rapporto di collaborazione stretto fra i consulenti e gli operatori, che alcuni definiscono di “parità”, ma che altri preferiscono considerare di “reciprocità” o di “mutua collaborazione”.

  1. Dewey (1951), mette in evidenza come l’apprendimento, specie nell’adulto, passi per l’azione e come dunque anche ricercatori ed operatori possano interiorizzare ed applicare consapevolmente i risultati della ricerca solo se hanno contribuito alla costruzione del sapere e, degli strumenti da utilizzare, o, se almeno, sono in grado di ricostruire i processi che li hanno generati.

Nella RA si sostiene che i due ruoli, ricercatore ed operatore, devono assumere il più possibile i connotati della reciprocità: il ricercatore continua sì a mantenere una posizione di spicco, poiché rappresenta colui che propone un piano e un progetto, ma al tempo stesso non costituisce il depositario di un sapere neutro e indiscusso; egli contratta, discute i risultati di questo sapere, contribuendo con gli operatori alla continua ridefinizione dei problemi da indagare, degli obiettivi e delle metodologie della ricerca, allo scopo di migliorare la pratica operativa.

Questo tipo di approccio teorico è da considerare fondamentale per l’istituzione dei MFP, in quanto garantisce il necessario training di base che i professionisti Infermieri necessitano per dotarsi di metodologie di lavoro di gruppo e di ricerca, che solo un lungo percorso di autoformazione potrebbe garantire.

Di seguito vengono illustrate le tappe fondamentali su cui si basa il metodo della RA, e la costituzione dei gruppi di ricerca:

1° formulazione e sviluppo del gruppo

Fondamento della RA è la costituzione di un gruppo che lavori in quanto tale e non come sommatoria algebrica di persone, collaborando e contrattando obiettivi, metodologie, fasi procedurali, criteri di valutazione.

La maturazione del gruppo avviene attraverso le seguenti fasi:

  1. Presentazione del lavoro da parte del ricercatore, in base anche alla richiesta che era stata fatta dagli operatori coinvolti, e all’analisi delle problematiche da essi sollevate. (analisi dei fabbisogni formativi, o correzione delle criticità diagnosticate);
  2. Formazione del gruppo che decide di operare in collaborazione – confronto reciproco: questo prevede l’adesione spontanea degli operatori che intendono assumere come proprio il tipo di metodologia della ricerca proposto;
  3. Precisazione delle mete del gruppo che devono essere flessibili, articolate in fasi a breve, medio e lungo termine, realistiche e significative per l’intero gruppo, che altrimenti perderà interesse, motivazione;
  4. Training del gruppo alle metodologie e agli strumenti che si intende utilizzare. In questa fase andranno specificati i compiti e i ruoli di ciascuno, (operatori, ricercatori, esterni) esplicitate le aspettative e le paure, così come andranno considerati soprattutto i possibili attriti esistenti o emergenti nel gruppo e le difficoltà.

2° La ricerca

Quando il gruppo diventerà ansioso di procedere al lavoro di ricerca vera e propria, si susseguiranno:

  1. La definizione del problema, in modo che i bisogni emersi nelle fasi precedenti si trasformino in una formulazione di intervento specifica, anche tenendo conto degli strumenti che si andranno a utilizzare;
  2. La familiarizzazione del gruppo con gli strumenti stessi della ricerca (questionari, osservazione, interviste, EBN, ecc.) in modo che siano di facile somministrazione e analisi, che consentano ai partecipanti di produrre dati specifici, adattandosi al tipo di ricerca da un lato e, ai bisogni espressi dall’altro;
  3. L’analisi dei dati, dunque, comporterà un grosso vantaggio per gli operatori, che impareranno a padroneggiare le tecniche, e per il ricercatore, che dovrà controllare tecnicamente l’uso degli strumenti e, allo stesso tempo, condurre il gruppo senza anticipare le interpretazioni, in modo che sia il gruppo stesso a elaborare le proprie resistenze individuali e collettive, per arrivare infine a una descrizione puntuale dei dati, che permetterà poi un’ulteriore elaborazione;
  4. L’ipotesi d’azione, che suggerisca possibili soluzioni alternative e individui azioni, strumenti e risorse per effettuarle.

3° L’azione

  1. Definire l’azione, dell’intervento in modo dettagliato. Gli obiettivi dovranno essere realistici, raggiungibili, osservabili e controllabili nei risultati;
  2. 2. Sviluppo del piano. Il piano sarà articolato in passaggi logici e temporalmente sequenziali, in modo che ogni passaggio possa essere valutato di per sé, prima di procedere a quello successivo. Andranno esplicitati anche costi, compiti, responsabilità, tempi da rispettare ecc…;
  3. Attuazione del piano. Il coordinatore del progetto accompagnerà il gruppo, in modo che valuti i risultati provenienti dalle azioni previste in ogni fase, e consideri l’opportunità di procedere alla fase successiva. Alla fine si attuerà la valutazione del piano con strumenti quantitativi e/o qualitativi, e si metteranno in luce i risultati positivi e l’opportunità di ripetere l’intervento in altre realtà, o con altri utenti.

L’educazione fra pari

L’educazione fra pari non è un concetto nuovo. In vero il primo esempio di lavoro, con tale metodo, è stato sviluppato nel 1920 dagli Alcolisti Anonimi.

In Nord Irlanda l’educazione tra pari è stata, dagli anni ‘70 ad oggi, utilizzata per la prevenzione in molti campi dell’educazione alla salute (uso ed abuso di sostanze stupefacenti, sessualità, alcolismo, tabagismo, trasmissione dell°I-HV, igiene ambientale, sicurezza stradale, controllo delle nascite, trasmissione delle malattie veneree) e se non è mai giunta alla definizione di un corpo teorico rigoroso, può comunque rifarsi ad una serie di interessanti esperienze sul campo.

L’educazione fra pari è una metodica che, con il supporto di adulti competenti, utilizza e potenzia l’apprendimento tra pari in gruppo.

Al gruppo che fa richiesta dell’intervento, viene chiesto di scegliere tra i membri due dei compagni che sono più ascoltati e più adatti a parlare agli altri dell’argomento scelto. La naturale tendenza ad avere influenza sugli altri (Leadership) viene sviluppata ed organizzata in funzione dell’obiettivo previsto attraverso moduli formativi tenuti da persone esperte sia di dinamiche di gruppo che dell’argomento trattato.

Successivamente i leaders dei pari così formati, progettano, organizzano ed attuano l’intervento nel proprio gruppo.

Sono possibili varianti in cui leaders di gruppi di età maggiore fanno interventi in altri gruppi. Ad esempio: ragazzi delle quarte superiori possono fare interventi nelle seconde classi (in questo modo gli stessi ragazzi formati possono attivare diversi interventi nel corso degli anni).

Si tratta quindi di un processo “a cascata“ che consente una maggiore diffusione e capillarità di informazione; una valorizzazione delle risorse dei gruppi e dei protagonisti del processo formativo; una migliore efficacia preventiva con una notevole riduzione dei costi.

Il riferimento è all’appartenenza al gruppo, alla rappresentazione del proprio gruppo e all’esercizio del potere di influenzare gli altri.

Nell’adolescenza il gruppo diviene il contesto privilegiato di riferimento per gli apprendimenti, l’assunzione di atteggiamenti e di stili comportamentali. Il ruolo dell’adulto non viene meno ma si configura come facilitatore dei processi educativi, facendo emergere e supportando le risorse e l’iniziativa dei giovani.

Ricerche nel campo della valutazione dei programmi di prevenzione hanno sottolineato come questa metodologia produca effetti positivi sia negli educatori alla pari, sia nei ragazzi destinatari dei loro interventi, in termini di apprendimento delle informazioni, ma anche di crescita personale attraverso la modificazione dei comportamenti e degli atteggiamenti.

Nel momento in cui viene attivato l’intervento il gruppo diviene un gruppo di lavoro. Quello che qui interessa è l’uso del gruppo per la sua maggior efficacia rispetto al lavoro individuale, anche nel campo formativo e in particolare per modificare atteggiamenti e comportamenti.

La questione, apparentemente ovvia, è stata ed è tuttora oggetto di studio e controversie a partire dalle esperienze dello studioso più autorevole nel campo: K. Lewin.

La prestazione collettiva (cioè di individui che costituiscono un gruppo) è in linea di massima superiore a quella potenziale degli stessi individui non in gruppo.

Le condizioni perché ciò si verifichi sono: che si tratti di un gruppo reale (non un aggregato o uno pseudo gruppo) e di un piccolo gruppo. Così una discussione in gruppo è potenzialmente più efficace nell’abbandonare o nell’assumere un’opinione, un atteggiamento o un comportamento.

In effetti gli studi, a partire soprattutto dagli anni “60, hanno contraddetto la tesi che le discussioni di gruppo tendono al massimo di mediazione e di compromesso delle opinioni espresse, dimostrando invece che il gruppo favorisce l’assunzione di posizioni e decisioni più consapevoli e innovative di quelle prese individualmente dalle stesse persone sui medesimi argomenti.

In un gruppo ciascun membro viene ad occupare una “posizione“ determinata dall’apporto ai bisogni del gruppo e dai rapporti con gli altri membri. Rispetto all’influenza nel gruppo, ogni membro si colloca in una posizione diversa sull’asse marginalità – centralità.

La leadership in un gruppo è funzionale a diversi compiti (esistono più leadership per più membri) secondo due direttrici: quelle centrate sul compito, sul raggiungimento dell’obiettivo (leadership socio-operativa) e quelle centrate sulle relazioni, sui bisogni soggettivi e collettivi del gruppo (leadership socio-affettiva).

Nel nostro caso, lavoro formativo di piccolo gruppo, le necessità legate all’obiettivo e il coinvolgimento ed il benessere degli individui nel gruppo sono connessi.

Il comportamento degli altri è probabilmente la più potente forza di influenza sociale sul comportamento individuale che esercita sia rinforzi positivi che negativi (Carison 1987).

Questo processo, secondo la teoria dell’apprendimento sociale, consiste nell’imitazione del comportamento di persone significative: genitori, insegnanti, pari, leader. E’ questa imitazione del comportamento specifico la chiave della metodica della educazione fra pari.

Fielder F.E., Chemens M.N. e Mekar L. (1976) conclusero che la relazione tra educatori dei pari e riceventi, basata su un dare e ricevere amicizia e non su un modello insegnante/alunno autoritario, sembra essere il principale motivo dell’impatto positivo del processo dell’educazione fra pari sul risultato.

L’organizzazione per l’apprendimento (OA)

Molto si è scritto e discusso sul concetto di organizzazione per l’apprendimento (OA), esso sembra divenuto un’etichetta di moda con cui ricoprire un ampio panorama di diverse esperienze e di variegati significati.

L’ampia letteratura esistente su questo tema coinvolge almeno tre tipi di approcci:

  • il primo considera la OA come una metafora degli studiosi di management e delle Direzioni Aziendali per meglio definire le caratteristiche organizzative salienti, che dovrebbe possedere un azienda moderna per avere successo: “la capacità di apprendere più rapidamente dei vostri concorrenti può essere I ‘unico vantaggio competitivo sostenibile” ;
  • un secondo approccio sembra indicare la OA come l’unica strada che possono intraprendere i programmi di miglioramento continuo perché possano effettivamente spostare l’accento del miglioramento continuo (che è il risultato) all’apprendimento organizzativo (che è la causa): “senza apprendimento le imprese si limitano a ripetere i vecchi procedimenti; il cambiamento si ferma alla superficie e i miglioramenti sono causali e di breve durata”;
  • l’ultimo tipo di approccio si focalizza sul concetto di apprendimento organizzativo, sulla sua complessità e difficoltà di darne una definizione. “l’apprendimento non deve essere necessariamente consapevole o intenzionale… L ‘apprendimento non comporta necessariamente miglioramento dell’efficacia… Le organizzazioni possono apprendere in modo scorretto o apprendere in modo corretto qualcosa di sbagliato… I cambiamenti derivanti dall apprendimento non sono necessariamente visibili a livello comportamentale. L ‘apprendimento può portare a nuove e importanti conoscenze, ad una nuova consapevolezza che non si traduce in un cambiamento comportamentale”. E ancora, rispetto all’esistenza dell’apprendimento organizzativo, presumiamo che un’organizzazione apprenda se una delle sue unità acquisisce una conoscenza da essa ritenuta potenzialmente utile per l’organizzazione.

Nella OA le persone ampliano continuamente la loro capacità di raggiungere i risultati ai quali realmente  aspirano, il terreno è favorevole a nuovi ed estesi modelli di pensiero, le aspirazioni collettive non sono soffocate e, infine, le persone sono immerse in un continuo processo di apprendimento su come imparare insieme.

Occorre però osservare che gli studiosi hanno affrontato spesso questo tema più con un taglio filosofico che con un approccio manageriale, preoccupandosi di chiarire la visione, le aspettative e i desideri, di questo nuovo modello organizzativo. Vi sono pochi spunti su linee guida e indicazioni operative per trasferire questo modello nelle realtà concrete della vita lavorativa quotidiana delle aziende.

Proprio per questo, il nostro progetto si offre di tentare una proposta, una modalità applicativa di questo approccio organizzativo in ambito sanitario. Crediamo, infatti, che solo un contesto stimolante e ben progettato, possa far crescere la tanto desiderata autonomia professionale degli infermieri.

In realtà la OA esiste da sempre, si potrebbe dire da quando esiste l’uomo. Già le organizzazioni tribali possono essere considerate delle OA. Esisteva, infatti, un processo di acquisizione delle conoscenze: si raccoglievano molte informazioni dall’osservazione attenta della natura.

Vi era poi un momento di distribuzione ed elaborazione delle informazioni, il consiglio degli anziani in cui si stabiliva, per esempio, il momento propizio per la caccia. Vi era già una grande attenzione alla memoria organizzativa: nei miti e nelle tradizioni orali venivano condensate e trasmesse di padre in figlio tutte le conoscenze ritenute utili. La creazione di conoscenza, per esempio la costruzione di un arco o l’utilizzo dell’argilla, era già considerata un elemento determinante per la sopravvivenza della tribù rispetto ai possibili nemici.

Del resto, anche nella più tradizionale azienda “fordiata” vi è sviluppo di apprendimento; esistono infatti grossi centri di ricerca e sviluppo che:

  • curano l”ideazione di nuove tecnologie e, quindi creano nuova conoscenza;
  • si occupano della progettazione dei prodotti, quindi trasferiscono le conoscenze incorporandole nei prodotti;
  • sovrintendono alla messa in produzione dei nuovi prodotti, trasferendo così alla fabbrica il know-how necessario per mettere in grado di replicare il prototipo;
  • accumulano poi tutte le conoscenze acquisite depositando negli archivi aziendali disegni, prove, procedure di lavorazione, controlli qualità, etc.

Dove sono allora le novità e l’importanza di questo concetto? Come mai ancora oggi, al centro del dibattito manageriale, vi sono i modelli di OA e di management della conoscenza?

La risposta è racchiusa in un serie di fattori concomitanti che hanno reso tali modelli estremamente attuali e significativi.

Vediamoli in dettaglio.

Per prima cosa vi è una forte accelerazione dei tempi di risposta richiesti all’organizzazione per soprvvivere. Non è più possibile procurarsi le conoscenze solo quando servono; il processo è troppo lento, le competenze devono essere disponibili e pronte a dare una risposta immediata all’ambiente.

Un secondo fatto che deve essere considerato è la sempre maggiore importanza che vanno assumendo le competenze nella nostra epoca post industriale, in cui assistiamo da un lato ad una lenta dematerializzazione dei prodotti e dei servizi venduti dalle imprese, dall’altro ad un aumento continuo della complessità e dell’integrazione degli apprendimenti richiesti, non solo tecnologici, ma anche organizzativi, sociali, relazionali ed etici, quindi non technical skills.

Un terzo fattore determinante è la disponibilità di tecnologie che permettono la distribuzione delle informazioni rendendo, anche economicamente, interessante il modello delle intelligenze diffuse. I problemi possono essere studiati e risolti anche localmente, perché i risultati di questa ricerca possono essere poi diffusi su tutta la rete e arrivare così direttamente e scambievolmente a tutti gli interessati.

Oggi ricomporre i saperi diffusi costa poco e consente una grande flessibilità combinatoria. Il Learning non riguarda più solo i capi, ma tutti gli operatori; più l’apprendimento scende, meno costa.

Infine, un altro aspetto che va preso in considerazione è il progressivo aumento del vantaggio economico di rendere l’apprendimento sistematico, consapevole, esplicito, intenzionale, passando così da una situazione a velocità naturale, con modalità di acquisizione spontanea ad una in cui gli apprendimenti vengono accelerati facilitandone e promuovendone la diffusione.

Alla luce di quanto appena espresso, possiamo tentare di mettere meglio a fuoco il significato di OA, dandone una definizione di tipo funzionalista: “organizzazione capace di acquisire, creare, perfezionare, sviluppare, memorizzare, distribuire, utilizzare conoscenze a velocità accelerata modificando il modo in cui il lavoro viene efettivamente svolto per innescare cambiamenti interni e/o esterni ritenuti favorevoli al raggiungimento dei propri obiettivi”.

Le ipotesi della “andragogia” scienza dell’insegnamento agli adulti secondo M. Knowles[3]

I principi per la costituzione ed il mantenimento dei MFP, si fondano su teorie e prassi formative di ispirazione andragogica. M. Knowles fa notare come, fin dall’aspetto etimologico “parlare di pedagogia degli adulti è una contraddizione in termini”; infatti “pedagogia deriva dalla medesima radice di pediatria, cioè la parola greca paidos, che significa fanciullo (oltre al temine agogos che significa guida).

Aggiunge quindi che: la pedagogia è divenuta una corda al collo dell’educazione. Le prime tradizioni dell’insegnamento e L’apprendimento si interrompono e si persero con la caduta di Roma; i grandi maestri della storia antica – Lao Tse e Confucio in Cina, i profeti d’Israele, Gesù, Socrate, Platone, Aristotele, Euclide, Cicerone – erano soprattutto educatori di adulti, non di bambini.

Essi formularono delle ipotesi – quella dell’apprendimento come un processo di scoperta da parte del discente – e usarono metodologie (il dialogo, l’imparare facendo), che finirono per essere considerate come “pagane” e furono perciò proibite quando, nel settimo secolo, si cominciarono ad organizzare le scuole monastiche.

Quando i novizi si presentavano ai conventi, i monaci che li istruivano, basarono il loro insegnamento su quel che serviva per trasformare quei ragazzi in obbedienti, fedeli ed efficienti servitori della chiesa.

Da questa origine si è sviluppata la tradizione pedagogica, che si diffuse successivamente nelle scuole secolari d’Europa e d’America, e che sfortunatamente fu poi applicata anche all’educazione degli adulti.

Knowles quindi attira L’attenzione sulla recente nascita di una nuova disciplina l’andragogia: questa nuova teoria si sta diffondendo con il nome di andragogia, derivante dalla combinazione del termine greco che significa uomo, in quanto contrapposto a fanciullo.

Non è una parola nuova, ma sono nuove le teorie e le tecnologie che il termine designa. La teoria andragogica si basa almeno su quattro ipotesi principali che differiscono da quelle della pedagogia.

Vediamo quindi, le ipotesi dell’andragogia, relative cioè all’apprendimento degli adulti:

  • Concetto di sé. Profondo bisogno psicologico di essere percepito come autonomo e indipendente dagli altri. Di conseguenza, se l’adulto si trova in una situazione in cui non gli è ” concesso di i autogovernarsi, sperimenta una tensione tra quella situazione e il proprio concetto di sé; la sua reazione tende a divenire di risentimento e resistenza.

Effettivamente questa ipotesi dell’andragogia spiega bene alcune variazioni degli adulti quando i corsi di formazione sono realizzati con tecniche corrispondenti alla pedagogia tradizionale dei bambini: o si adeguano, regredendo a comportamenti scolastici un pò infantili, e/o regrediscono con risentimento e resistenza.

  • Il ruolo dell’esperienza. Ipotesi sull’apprendimento degli adulti (andragogia). L’adulto ha accumulato molta esperienza, e spesso parte di essa è significativa anche rispetto allo specifico oggetto proposto di apprendimento “una risorsa sempre più ricca per l’apprendimento”. L’esperienza precedente dell’adulto “costituisce allo stesso tempo una base sempre più ampia a cui rapportare i nuovi apprendimenti”. In altre parole il nuovo apprendimento deve integrarsi in qualche modo con la precedente esperienza. L’adulto quando matura, sempre più identifica sé stesso attraverso le proprie esperienze: ciò che ha fatto, come lo ha fatto e come lo ha vissuto; per un adulto l’esperienza rappresenta chi egli è; dunque in ogni situazione in cui l’esperienza di un adulto viene sottovalutata o ignorata, egli percepisce ciò non solo come un rifiuto della sua esperienza, ma come un rifiuto di lui come persona. L’esperienza porta le persone ad essere sempre più diverse l’una dall’altra: perfino lo stile cognitivo cambia per effetto delle esperienze fatte. Gli adulti differiscono tra loro più che non i bambini, a parità di variabili soggettive, per conseguenza delle diverse esperienze che hanno accumulato negli anni.

 

Knowles aggiunge che è per questa ragione che nella formazione degli adulti sono particolarmente importanti le metodologie attive, che determinano in se stesse esperienza: l’uso della lezione, delle presentazioni audiovisive preconfezionate, delle letture assegnate, tende a svanire a favore della discussione, del laboratorio, e di simulazioni, esperienze sul campo, progetti di gruppo e altre tecniche di apprendimento attivo o action learning.

Questa differenziazione proposta da Knowles sull’orientamento all’apprendimento, spiga molto bene la differenza tra formazione di base, generalmente intrapresa una volta nella vita, e formazione applicativa, tipicamente a carattere di aggiornamento professionale permanente.

La formazione di base, per esempio quella universitaria e soprattutto nei bienni propedeutici, ha una sua validità metodologica anche per il ragazzo ormai pressoché adulto: ma richiede un contratto psicologico per cui egli, rispetto al ruolo professionale cui si prepara in vista dei molti vantaggi futuri della laurea, accetta di ritornare fanciullo cioè

eterodiretto. Tale contratto psicologico non è accettabile invece nell’aggiornamento professionale degli adulti, non a caso restii ad iniziative, lunghe o brevi che siano, di formazione di base.

La comprensione empatica come base per la formazione nei MFP (risultati)

Di fronte a qualcosa che non ci piace, che magari ci coglie di sorpresa e ci disturba, spesso la nostra normale reazione è il rifiuto, la chiusura.

Ci sono situazioni nelle quali questo tipo di atteggiamento non provoca conseguenze troppo negative: in fondo si tratta di una forma di difesa e, come tale, ha un certo potere adattivo.

Quando però la “situazione” che si trova davanti ha l’aspetto di un “contesto” arrabbiato, capriccioso, aggressivo, impaurito. ..  il rifiuto non è un atteggiamento senza effetto.

Certamente tutti noi preferiamo avere a che fare con persone (collaboratori, colleghi, superiori oppure semplici conoscenti, non fa grossa differenza) serene, tranquille ed accomodanti; le espressioni emotive e comportamentali di sofferenza ed aggressività ci mettono a disagio, ci inducono a scostarci, fisicamente e psicologicamente,  dalla fonte da cui provengono. Quello che, però, è altrettanto certo, è che il sentirsi “rifiutati”  è un’esperienza difficile da accettare ed elaborare.

Il primo punto meritevole di attenzione sta proprio qui: la collera e la disapprovazione si rivolgono, in genere, all’altro, più ancora che al suo agito “colpevole”.  “Sei cattivo!” non ha proprio lo stesso significato di “Stai facendo una cosa cattiva!”: un conto è condannare la persona, giudicarne l’intrinseca “cattiveria”, altra cosa è valutarne il comportamento; anche le persone “buone” possono fare cose cattive quando si arrabbiano!

Per cui, di fronte ad una persona che esprime un’emozione negativa con tutta la voce che ha in gola, cercare di mantenere distinto il livello persona – comportamento è davvero essenziale.

Compiuto questo primo passo, è molto importante cercare di osservare la propria reazione di fronte a quel che sta facendo – dicendo: ci stiamo innervosendo anche noi? Ci sentiamo imbarazzati, a disagio?

Ci sentiamo spaventati, magari perché è la prima volta che ci capita di trovarci in una simile situazione?

L’auto osservazione è uno strumento preziosissimo per relazionarci con gli altri, specie in situazioni di stretta interazione e collaborazione, non dimentichiamolo.

Il terzo passaggio consiste nel “sintonizzarsi” sulla lunghezza d”onda emotiva di chi ci sta di fronte, facendo leva sulla capacità empatica che tutti noi, in gradi differenti, possediamo.

Studi sperimentali dimostrano che la capacità empatica si mostra persino nei bambini di pochi giorni quando, al pianto di uno di loro, gli altri rispondono con analoghe manifestazioni; si tratta, in realtà, di un “contagio emotivo” piuttosto riflesso, primo passo verso la comprensione dei sentimenti altrui e la vera capacità empatica che farà la sua comparsa più avanti negli anni.

Cercare di capire cosa si cela dietro il comportamento di un collega, cosa lo spinge a fare e a dire quel che fa e dice, è fondamentale per gestire in maniera sana la relazione.

Se, sempre in relazione all’esempio scelto, il mio interlocutore è arrabbiato, la cosa migliore da fare è dimostrargli com-prensione (dal latino cum – prehendere, “prendere dentro”, “accogliere”) e sim-patia (dal greco “provare gli stessi sentimenti”, “patire insieme”), verbalizzando il suo stato d’animo, così da renderlo chiaro ad entrambi: “Sei arrabbiato”; così facendo egli capirà che ci occupiamo di lui e che siamo interessati a quello che prova.

Già questo atteggiamento calmerà la frustrazione di non essere stato ascoltato fino a quel momento. Chiedendogli di raccontare cosa prova e cosa è successo, lo aiuteremo a fare ordine dentro di sé e ci daremo la possibilità di confortarlo e di assicurargli che gli vogliamo bene anche se è arrabbiato.

I cosiddetti “scontri” derivano spesso da una lunga serie di richieste e segnali inascoltati, in seguito ai quali l’individuo pensa di farsi sentire in altro modo.

Una volta chiarito lo stato d’animo e rassicurato sul nostro affetto e comprensione, si potrà affermare che quanto fatto e detto, non è una buona cosa e si potrà suggerire un modo alternativo di comportarsi e di cooperare, trasmettendogli la nostra fiducia nella sua capacità di migliorare (“La prossima volta usa le parole, quando vuoi qualcosa. So che sai essere gentile e rispettoso”).

Ascoltare, comprendere, parlare, fare chiarezza, dimostrare affetto e rassicurare sono gli atteggiamenti corretti per gestire le relazioni con i nostri collaboratori, anche e soprattutto quando si presentano situazioni di forte disagio emotivo. Succede certamente anche che, dopo tutto il bel discorso fattogli, essi si oppongano a noi e al nostro affetto.

Non scoraggiamoci e pensiamo che la sua emotività ha bisogno di tutto tranne che del nostro rifiuto; diamogli il tempo di far passare la paura e tutte le altre emozioni che si agitano dentro di lui, consapevoli che possiamo sempre riparlargli in seguito e che, in ogni caso, gli abbiamo dato quello di cui aveva bisogno.

Sarebbe stato peggio, in ogni caso, averlo ripreso con veemenza e averlo umiliato e facendogli pensare che non gli vogliamo più bene. Non ricordo più chi l’ha detto, ma penso sia verissimo: “Le parole ed i gesti di amore sono, come gocce di rugiada per la pianticella che cresce “.

Non lasciamo che, chi ci circonda, per quanto chiassosi ed imprevedibili siano, corrano il rischio di inaridirsi, innaffiamo le loro radici di comprensione e sincerità.

I Moduli Focali Professionali: scopo e definizione

 I contributi teorici fino ad ora presentati, ci danno le basi per poter descrivere i principi su cui si basano i MFP. L’idea principale è quella di costruire un sistema aperto di lavoro per piccoli gruppi, all’interno di una Unità Operativa (UO) sanitaria.

Esso ha lo scopo di aumentare i livelli di coinvolgimento motivazionale dei professionisti sanitari, supportare il modello organizzativo presente all’interno dell’UO, e conseguentemente aumentare i livelli qualitativi di assistenza infermieristica, per meglio rispondere ai bisogni di salute del cittadino in ambito ospedaliero e territoriale.

Utilizzando le basi concettuali dell’educazione fra pari, dopo una analisi sociografica dell’assetto gruppale, svolta dai promotori del progetto, si definiscono le dinamiche sociali esistente all’interno della realtà oggetto dell’intervento.

Questo ci permette di identificare gli individui con maggiori capacità di trascinare ed influenzare gli altri (leader). Saranno loro che, opportunamente formati, fungeranno da trascinatori dell’intera equipe assistenziale, per la realizzazione del modello formativo in questione.

Si auspica il coinvolgimento di tutti i professionisti infermieri e OSS, presenti nel nucleo operativo di una intera UO, ma inizialmente solo una parte di loro sarà coinvolto nel necessario percorso formativo. Essi a loro volta saranno i promotori del cambiamento, tramite la costituzione di una rete di gruppi fortemente interagenti tra loro.

Bisogna considerare che maggiore sarà il grado di coinvolgimento iniziale, tanto maggiori saranno le probabilità di buona riuscita del progetto formativo.

In sostanza, nella UO oggetto dell’intervento, dopo la costituzione e la formazione dei gruppi, l’intero bagaglio conoscitivo dell’UO, sarà scomposto in sotto argomenti ed assegnato ad ogni singolo MFP.

Esso provvederà a rielaborarlo, farlo proprio, renderlo vivo, fare ricerca e dargli nuova vita con l’apporto di rinnovati ed aggiornati contenuti scientifici, per poi renderlo più facilmente fruibile ai propri colleghi del reparto ed ai neofiti. Essi faranno altrettanto.

Questo mutuo scambio che genera crescita di conoscenze è la base per la costituzione di una Organizzazione per l’apprendimento e degli stessi MFP, e di un processo di formazione sul campo che è di grande rilevanza per la formazione degli adulti.

Il sistema di trasmissione delle conoscenze che si ritiene utile adoperare, vede l’instaurazione di un sistema di tipo induttivo, dove i ricercatori – formatori, entrano in stretto contatto con i professionisti infermieri e OSS (vedi Ricerca Azione), donando loro basi metodologiche utili per la risoluzione di problematiche concrete.

Le stesse criticità, dovranno essere identificate con strumenti di analisi che fanno riferimento a metodi e strumenti di ricerca di tipo quantitativo e qualitativo.

Si punterà alla creazione di un sistema di influenze che premi un tipo di leaderschip trasformazionale, dove la figura del coordinatore dei professionisti infermieri abbia il ruolo di trascinatore del cambiamento.

Esso, coordinerà il MFP che si occupa dell’inserimento e della valutazione del neofita, ricoprendo di conseguenza il ruolo di collegamento tra i vari MFP, presenti nella sua UO.

Tale sistema di coordinamento potrà essere mantenuto anche a livello dipartimentale e, sempre più in alto, fino a coinvolgere l’intera macro struttura organizzativa dell’azienda.

Tenendo presente che ogni singolo membro di un MFP, potrà secondo le necessità organizzative, far parte contestualmente di più MFP a livelli differenti. Per esempio partecipare a MFP formati da persone appartenenti a più UO ospedaliere, territoriali, distrettuali, scambiandosi idee, punti di vista e necessità differenti ecc.

Questo potrebbe gettare le basi per una maggiore integrazione, tanto auspicata dai più moderni modelli organizzativi sanitari, per una forte integrazione tra l’ospedale ed i servizi territoriali.

Ricordiamo che un tale sistema di definizione di ruoli offre ai membri del gruppo di lavoro il vantaggio di rendere più facilmente prevedibile il comportamento e di fare in modo che, attraverso la chiarezza dei ruoli, diminuisca lo sforzo necessario al coordinamento.

Ogni MFP sarà costituito da un numero variabile (da uno a cinque) professionisti, privilegiando i seguenti criteri per la sua costituzione:

  • interesse dei partecipanti per l’argomento;
  • loro grado di esperienza rispetto all’argomento trattato;
  • anzianità di servizio nella specifica U.O.;
  • esperienze culturali e professionali possedute, anche extra lavorative;
  • valutare la possibilità di creare MFP interprofessionali;
  • disponibilità degli argomenti presenti nell’UO;
  • turno di appartenenza.

Un altro importante fattore strategico da considerare è la necessaria strutturazione del piano di intervento formativo, che si baserà principalmente su un tipo di rapporto docente – discente, tipico della metodologia della Ricerca Azione e della Formazione – Intervento; in cui prevalga un rapporto di collaborazione stretto fra i ricercatori – formatori e gli operatori, definibile di parità, di reciprocità e di mutua collaborazione.

Il ruolo del ricercatore / formatore, che generalmente viene ricoperto da professionisti interni o esterni all’azienda, è solitamente quello di pianificare, osservare, interpretare e diffondere i dati della ricerca, mediante la definizione delle variabili, la scelta della metodologia e degli strumenti e 1’elaborazione di “pacchetti” da proporre all’operatore.

Questa impostazione può produrre, come detto, quel rigetto verso la teoria di chi opera sul campo, o quella distanza fra ricerca e azione che lamentano spesso gli operatori.

Si vuole mettere in evidenza come l’apprendimento, specie negli adulti, passi per l’azione ed è enfatizzata dalle finalità che il nuovo contenuto conoscitivo apporta, quindi anche i ricercatori e gli operatori possono interiorizzare ed applicare consapevolmente i risultati della ricerca, solo se hanno contribuito alla costruzione del sapere e degli strumenti da utilizzare, o se almeno, sono in grado di ricostruire i processi che li hanno generati.

Nella Ricerca Azione il ricercatore continua a mantenere una posizione di preminenza, esso rappresenta colui che propone un piano e un progetto, ma al tempo stesso non costituisce il depositario di un sapere indiscusso e neutro; egli contratta, discute i risultati di questo sapere, contribuendo insieme con gli operatori alla continua ridefinizione dei problemi da indagare, degli obiettivi e delle metodologie della ricerca utilizzati, allo scopo di migliorare la pratica operativa.

Anche questo modello metodologico, si basa su un approccio verso i problemi, che utilizza in modo originale e stimolante le dinamiche che si presentano all’interno di un gruppo, specie di in piccolo gruppo come può essere un MFP.

La grande novità che apporta la Ricerca Azione è quella di costituire e far lavorare un piccolo gruppo di professionisti, ma inizialmente questo piccolo gruppo di lavoro è costituito e sostenuto da teorici – ricercatori esperti sia di dinamiche di gruppo che di metodologia della ricerca infermieristica e sociale.

Tali conoscenze, se applicate empiricamente in ambito infermieristico, permettono di dotare i professionisti infermieri di conoscenze teoriche che possono veramente rivoluzionare il loro modo di porsi verso la persona che soffre e che necessita di un sostegno competente.

Questo sia dal punto di vista tecnico professionale, che soprattutto relazionale. Garantendo così quel mandato prioritario della professione infermieristica, che vede al centro del suo sapere, fare, pensare, la persona nella sua unicità e complessità, che ha pienamente diritto alla garanzia di una prestazione sanitaria qualitativamente elevata.

Percorso di inserimento in UO del neofita tramite i MFP

Lo sviluppo di una cultura aziendale ha reso più complesso il contesto di lavoro.

Le richieste che vengono rivolte agli operatori, sono più differenziate e riguardando non solo lo specifico professionale, ma anche più approfondite capacità organizzative e relazionali.

Il personale è chiamato a svolgere una parte nel processo di organizzazione che lo vuole non più ricevente passivo di strategie direttive ma partecipe del processo di cambiamento, del miglioramento organizzativo, del contenimento della spesa, del rispetto dei criteri di efficacia ed efficienza.

Il compito di promuovere e sostenere questi cambiamenti è sempre più richiesto ai professionisti che operano in sanità ed ai loro dirigenti, che devono quindi dotarsi di strumenti di progettazione e gestione della risorsa umana, capaci di integrare le conoscenze tecniche con quelle relazionali.

Scopo del presente progetto è quello di sostenere e gestire il percorso di inserimento del neofita (Infermiere o OSS) all’interno di una Unità Operativa, tramite l’utilizzo dei MFP, che fonda la sua ragione d’essere sulla valorizzazione del lavoro in piccolo gruppo.

Questo, con la finalità di facilitare il percorso di inserimento del nuovo assunto e contemporaneamente supportare lo sviluppo e la crescita dei livelli motivazionali negli operatori sanitari che già lavorano nell’UO, ed indurre di conseguenza una crescita degli standard qualitativi e quantitativi del1’organizzazione sanitaria oggetto di intervento. Inoltre, tutto ciò permette di migliorare l’applicazione del modello organizzativo presente nell’UO.

La strutturazione dei Moduli Focali Professionali

Utilizzo della educazione fra pari, per identificare all’interno del gruppo, gli individui con maggiori capacità di trascinare ed influenzare gli altri.

Inizialmente solo un piccolo gruppo di professionisti sarà coinvolto nel necessario training, per poi fungere da trascinatori – formatori degli altri colleghi.

Si punterà alla creazione di un sistema di influenze che premi un tipo di leaderschip trasformazionale, dove la figura del coordinatore dei professionisti infermieri funga da guida del cambiamento.

Ogni MFP sarà costituito da un minimo di uno ad un massimo di cinque persone; i criteri per la sua costituzione sono i seguenti:

  • interesse dei partecipanti,
  • grado di esperienza rispetto all’argomento trattato,
  • anzianità di servizio nella specifica UO,
  • gruppo professionale di appartenenza,
  • esperienze culturali e professionali possedute, anche extra lavorative,
  • turno di appartenenza.

Scopi dei MFP

Rendere vivi i saperi presenti in una data UO, mediante la reinterpretazione teorica di quello che si fa. Non far l’errore di suddividere l’operato dei professionisti, cioè la specializzazione e l’approfondimento non devono essere il pretesto per operare esclusivamente sulle problematiche di proprio approfondimento. I professionisti infermieri, devono rimanere padroni dell’intero processo assistenziale,

Suddividere il bagaglio culturale di una intera UO in piccole parti, suddivisibili come delle vere e proprie Unità Didattiche.

Creare una struttura che sia pronta per accogliere i principi dell’Accreditamento e della certificazione della qualità, tramite l’ispirazione del proprio agire professionale a fondamenti di alcuni sistemi di miglioramento della qualità in sanità: CQI (…), VRQ (…) e del TMQ (…).

Far rinascere la voglia di imparare, di mettersi in discussione ed in gioco in tutto il personale.

Rivalutare le potenzialità individuali, presenti nell’azienda, tramite un nuovo modo di relazionarsi in gruppi differenti.

Le fasi della programmazione curriculare sono rappresentate come segue:

  • Analisi della situazione di partenza
  • Scelta degli obiettivi
  • Scelta dei contenuti
  • Scelta dei metodi
  • Scelta dei mezzi
  • Scelta dei criteri di verifica

Avviare un programma organizzativo di tipo formazione – intervento, tramite i MFP, con lo scopo di intervenire sulle criticità e i punti di eccellenza, presenti nell’UO, con il fine di costituire un organizzazione che lavori per obiettivi conoscitivi e operativi, allo scopo di costituire un percorso organico di inserimento del neofita all’interno dell”UO ed aumentare i livelli motivazionali del personale già presente nell’UO.

Fase uno:

diagnosi delle criticità e dei punti di eccellenza, nell’organizzazione oggetto dell’intervento, tramite:

  • Intraviste al coordinatore ed ai diurnisti, case manager ecc;
  • due Focus Group con un campione del personale Infermieristico eOSS;
  • grazie ai due punti precedenti definire le dinamiche gruppali presenti nella UO (definizione dei gradi di influenza)

Dai risultati dei Focus Group e dalle interviste, effettuate all’interno dell’UO, individuare circa cinque professionisti, che abbiano delle capacità di coinvolgere i propri colleghi (leadership) puntando su una adesione di tipo volontaria, e avviare la formazione fra pari, ed il relativo training per la formazione intervento.

Fase due:

Ricerca Azione

Selezione e formazione dei formatori con il metodo della educazione fra pari. Contenuti presenti nel training formativo:

  • Nozioni di ricerca EBN;
  • Come lavorare in gruppo;
  • Come costruire gli indicatori relativi agli obiettivi identificati;
  • Come coinvolgere i propri colleghi ad entrare nel proprio MFP;
  • Come comunicare efficacemente all’interno ed all’esterno del MFP;
  • Avvio guidato dei gruppi.

Fase tre:

preparazione del materiale e avvio gruppi MFP all’interno dell’UO. Il primo percorso sperimentale di inserimento, verrà seguito dagli infermieri e OSS con meno anzianità di reparto. Questo servirà a testare il percorso, per esempio valutare i tempi per completare il percorso, la fruibilità dei materiali preparati, osservare le dinamiche che si realizzano ecc., ricevere suggerimenti per eventuali modifiche al piano di inserimento.

Valutazione:

  • Sussistenza e funzionalità dei MFP,
  • Risultati delle ricerche e materiale preparato dei MFP,
  • numero di Neofiti che hanno completato il percorso positivamente,
  • livelli motivazione del personale, valutati tramite:  Focus Group a due gruppi di Professionisti Infermieri e OSS, a posteriori e confronto con i dati emersi nei Focus Group iniziali.
  • Interviste di valutazione della sperimentazione, ex post, per confrontare i risultati con i dati ex ante. Prevedendo la presenza di domande aperte per valutare i suggerimenti e le impressioni del percorso esperienziale svolto.

Indicatori

  • Costituzione di almeno 5 MFP all’interno della UO,
  • Lavori prodotti dai MFP, con chiari ed identificabili riferimenti ai principi dell’EBN,
  • Aumento dei livelli motivazionali e di coinvolgimento professionale, del personale Infermieristico, rispetto ai dati emersi dalla valutazione ex ante, (rilevati tramite interviste e Focus Group)
  • Ogni infermiere e OSS della UO in oggetto deve essere edotto sulla sperimentazione in atto,
  • Tutti i nuovi assunti nell’UO oggetto di intervento, dopo l’entrata in vigore del progetto, avranno seguito il percorso di inserimento.

Valori aggiunti

Infermieri che si sentono docenti e ricercatori, motivati dal fatto di essere realmente esperti di una specifica area di conoscenza dell’intero processo assistenziale che presiedono.

Questo potrebbe essere un’ottima base per la realizzazione della tanto sospirata specializzazione infermieristica clinica, con livelli crescenti, supportati da un percorso accademico che parte dalla laurea di primo livello, seguita da master di primo livello, da laurea specialistica clinica, da master clinici di secondo livello e dal dottorato di ricerca in scienze infermieristiche.

Confronti e trasmissione di conoscenza all’interno ed all’esterno dei MFP.

Aumento dei livelli di autonomia professionale degli operatori.

Costituzione di figure di coordinamento dei MFP, che possono essere utilizzate in vista della nuova progressione orizzontale del personale infermieristico e OSS.

Follow up

  • Formazione intervento, tramite Focus Group agli operatori coinvolti nei progetti. A tre mesi, sei mesi, ed un anno.

L’obiettivo del progetto si intende raggiunto se, all’interno della UO di intervento, si venga a costituire una rete di MFP, che operino a livello conoscitivo per aree professionali specifiche e, all’interno di esse, i Professionisti Infermieri producano conoscenze utili a fronteggiare le criticità presenti, uniformando i livello di assistenza infermieristica secondo principi di efficacia, efficienza ed economicità, con un particolare attenzione alle evidenze scientifiche (EBN). Tutto questo per dare migliori risposte assistenziali agli utenti interni ed esterni.

Conclusione e discussione

Giunti alla fine di questo percorso è doveroso tirare le somme del nostro sforzo. Il contributo teorico ricercato, selezionato, elaborato e reso idoneo per supportare la costruzione dei Moduli Focali Professionali è stato ampio.

La scelta prioritaria di costituire un modello formativo che vede valorizzate le potenzialità umane presenti nell’intera UO, tramite approcci che si ispirano a teorie andragociche attive, vedi la formazione – intervento, è stato il fulcro del nostro lavoro.

In sostanza la costruzione dei MFP vuole essere un gioco senza rete in cui il formatore è manager tra i manager, è quadro tra i quadri, è operatore tra gli operatori, ma diversamente dagli altri è un metodologo del processo decisionale e un facilitatore dei processi di formazione e di sviluppo intorno al progetto in cui le persone sono collettivamente impegnate.

Il capo progetto o come in area anglofona preferiscono chiamarlo, proget-manager, nel nostro progetto è una persona competente in un determinato ambito e capace, per le sue doti di leadrschip, di stimolare, motivare e coordinare altre persone, sapendo di dover in primo luogo ascoltare attivamente per recepire i contributi del resto del gruppo.

Egli fa parte dell’organico della stessa UO oggetto dell’intervento, ma può anche essere una figura esperta che si sposta dalla propria realtà organizzativa, da UO a UO, per fungere da stimolatore del cambiamento in altre UO, sia interne che esterne alla propria azienda.

Egli (l’infermiere-formatore) non ha di solito la responsabilità delle risorse umane, materiali e tecnologiche e del loro sviluppo, che resta affidata alla line dell’organizzazione tradizionale.

Risponde invece del progetto provvedendo, per un periodo determinato e secondo una metodologia e delle procedure definite (riguardanti, per esempio, le frequenza delle riunioni), all’integrazione di contributi provenienti da persone con storie conoscitive differenti o da un gruppo interdisciplinare, per il raggiungimento di un obiettivo comune.

Essenziali per il raggiungimento dei risultati sono due elementi:

  1. la consapevolezza del proget-manager che a fornire i contributi, essenziali per la buona riuscita del progetto formativo, sono professionisti con culture diverse e portatori di punti di vista e linguaggi tipici del loro ambiente lavorativo;
  2. b) la sua convinzione che la varietà di competenze, caratteristiche personali e linguaggi costituisce una risorsa da utilizzare oltre che una difficoltà da gestire e superare.

Il centro del nostro interesse si è spostato dal fare formazione al costruire apprendimenti, (vedi RA) centrando i nostri sforzi sui professionisti presenti nella realtà organizzativa, sul loro essere inseriti in precise e ben contestualizzate dinamiche gruppali. Questa modalità è utile per coniugare i bisogni dell’organizzazione con quelli dell’individuo, anche se rimane importante la formazione più classica, quella d’aula, ai fini dell’apprendimento di un aspetto e dell’acquisizione di una conoscenza sia in termini assoluti che per la sua complementarità con la prima.

È una formula a cui molti autori hanno dato il nome di formazione – intervento in quanto consente di innescare e sviluppare dei processi di formazione individuale ma soprattutto collettivi contestualmente a processi di intervento e cambiamento organizzativo.

Riteniamo che un prossimo avvio sperimentale in una UO, possa essere un’esperienza molto positiva per la  realizzazione dei MFP. Di certo non conclusa, ma in via di continua ridefinizione e crescita costante del modello dei MFP. La parola staticità in un progetto sperimentale con i MFP, in una organizzazione dinamica come quella sanitaria, deve per forza di cose essere sostituita con: prontezza e disponibilità al cambiamento.

Ma il valore aggiunto più importante che il presente lavoro vuole sottolineare è la concretizzazione, teorica ed empirica, del modello concettuale riferibile ai MFP e la rinnovata motivazione al lavoro che può emergere in molti professionisti esperti dell’assistenza infermieristica, che da molti anni lavorano nella U.O. oggetto del nostro intervento.

Non nascondiamo la nostra personale soddisfazione nel veder prendere forma ad alcune nostre idee, incubate ormai da anni, e dalla crescita di consapevolezza dell’enorme contributo che esse possono apportare alla professione infermieristica.

È di grande rilevanza affermare l’importanza che l’aspetto formativo ricopre nella professione infermieristica, sia di base che soprattutto post base, cioè in ambito organizzativo sanitario, e di come questa non può più fare a meno di ispirarsi a modelli e concetti che scaturiscono dall’andragogia e dalle scienze dell’educazione.

Speriamo che lo sforzo fatto per testimoniare, con il presente elaborato, l’esistenza di una teoria e di una prassi della formazione, intesa come supporto indispensabile nell’essere Infermiere, aiuti la professione Infermieristica a svilupparsi sempre più rapidamente ed efficacemente in vista degli importanti contributi che la società del futuro si attende dagli esperti di assistenza infermieristica. E speriamo che ciò avvenga anche attraverso la sistematicità , che la documentazione scritta impone ed aiuta a sviluppare.

Tutto questo affinché il know-how sia trasferibile facilmente tra individui, tra gruppi e tra generazioni di professionisti sanitari; cosa che rappresenta il nodo imprescindibile per il consolidamento come professione di qualsiasi ruolo organizzativo o sociale.

 

Cosimo Della Pietà,

Infermiere ADI, ASL Taranto

 

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Si specifica che nella realizzazione del presente elaborato, non sussistono  conflitti di interesse e non sono stati  ottenuti finanziamenti di sorta.

 [1] Prati G., Pietrantoni L., Rea A. (2006). Competenze non tecniche e marcatori comportamentali nelle professioni a rischio. NUOVE TENDENZE DELLA PSICOLOGIA. vol. 3, pp. 353 – 370. E Prati G., Catufi V., Pietrantoni L. (2011). Le competenze non tecniche dei chirurghi: il sistema NOTSS. PSYCHOFENIA. vol. 24, pp. 39 – 63.

[2] Crozienr M., Friedberg E., Attore sociale e sistema, Estas Libri, Milano 1978

[3] I brani riportati di M. Knowles sono tratti da “The Adult Learner, A Neglected Species, in AIF, Associazione Italiana Formatori, n.0, nov. 1986

 

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