“In Inghilterra, dove la figura dell’infermiere è storicamente valorizzata, vanno alla ricerca di personale qualificato, come quello italiano, per mantenere alti gli standard soprattutto del rapporto quantitativo infermiere-pazienti”. Parola di Antonio Torella, infermiere 41enne che ora lavora per l’Ausl Bologna, dopo per diversi anni trascorsi in Inghilterra.
Intervistato dal Corriere della Sera, Antonio ha parlato dei vantaggi del lavoro da infermiere all’estero: “In Inghilterra per ogni infermiere ci sono sei pazienti. Qui a Bologna e in Emilia-Romagna il rapporto e 1 a 7/8, ma anche 1 a 13/14 per il turno di notte. Vengono a reclutarci in Italia attraverso agenzie di intermediazione, ma il contratto poi lo si facciamo direttamente con l’ospedale. Per un mese ti danno un posto dove vivere e poi ti fanno un prestito a tasso zero, da restituire in busta paga, per sostenere la spesa iniziale per l’affitto. E per i primi 20 giorni dopo l’assunzione, oltre a formarti sulla policy dell’ospedale e a organizzarti un incontro con i sindacati, favoriscono il più possibile la socializzazione tra colleghi, con cene ed eventi pagati dall’ospedale. Per il sistema sanitario inglese il primo obiettivo è far star bene la persona e integrarla. Provano in tutti i modi a tenerti lì”.
Tutto il contrario dell’Italia, insomma: “In Italia un infermiere che lavora dal lunedì al venerdì, quindi al netto di notti e festivi, guadagna circa 1.800 euro lordi al mese. A Brighton, da neo-assunto, portavo a casa 2.500 euro netti al mese e mi pagavano anche i corsi di specializzazione e i master universitari. Qui, se vuoi fare un master per l’unica progressione prevista, quella organizzativa, te lo devi pagare di tasca tua. Ma non è l’unica differenza sostanziale”.
E allora perché rientrare in Italia? Per amore della moglie e del figlio, anche se nel 2015 Antonio è tornato per un breve periodo in Inghilterra: “Ogni settimana ricevo un’offerta dall’Inghilterra: sono disposti a pagarmi 1.500 sterline a settimana per andare a lavorare nei loro ospedali con le mie competenze. Io sono tornato solo perché avevo già 30 anni quando sono partito, un lavoro a tempo indeterminato all’Ospedale Maggiore, moglie e figlio. Ma quando sono partito per l’Inghilterra eravamo 25 infermieri reclutati dalle agenzie e sono rimasti quasi tutti là. Mi sento con molti di loro e tornerebbero volentieri in Italia, se ci fossero anche solo due condizioni: uno stipendio adeguato alle responsabilità e al costo attuale della vita, e poi la valorizzazione delle competenze”.
Alla fine il problema principale è sempre quello dello stipendio inadeguato: “Ora che ho un ruolo organizzativo guadagno meno di quando facevo l’infermiere in sala operatoria. Porto a casa meno di 2.000 euro al mese e ho due master, cinque anni di università e un’esperienza di 18 anni sul campo. Anche mia moglie è infermiera. Si fa fatica con il costo della vita a Bologna. Ormai le vacanze le facciamo in Puglia, a casa dei miei genitori. È aumentato tutto del 40%, ma i nostri stipendi no. Se non si inverte la rotta, tra qualche anno Bologna si spopolerà di figure sanitarie. Si faccia tornare qui chi se n’è andato e si aiutino con l’alloggio i giovani che verrebbero qui a lavorare”.
Redazione Nurse Times
Fonte: Corriere della Sera
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