Siamo in Italia. Quando c’è una strada dissestata, piena di buche, non si perde tempo a rifarla: si riempiono i fossi. Funziona subito, costa meno e dà l’illusione che il problema sia risolto. La sanità non fa eccezione. Invece di investire seriamente nel rendere la professione infermieristica più attrattiva per le nuove generazioni, si investe nei tappabuchi. Figure “di supporto”, “integrative”, “di aiuto”. Non per far crescere la professione, ma per tamponarne l’emorragia.
Il cerotto sul problema strutturale
La carenza infermieristica non nasce dal nulla. Nasce da turni insostenibili, responsabilità crescenti, stipendi stagnanti e riconoscimento professionale ancora fragile. Ma affrontare questi nodi richiede tempo, risorse e coraggio politico. Molto più semplice è introdurre una nuova figura “al ribasso”, che promette di alleggerire il carico senza toccare il problema alla radice. Il messaggio implicito è chiaro: non rendiamo la professione più forte, la rendiamo più facilmente occupabile.
Facilmente occupabile non significa professionale
Ed è qui che qualcosa stona. Quando una professione viene affrontata come un problema di riempimento e non di valore, si trasmette un’idea pericolosa: che il lavoro infermieristico sia scomponibile, riducibile, semplificabile. Come se non fosse una prestazione intellettuale complessa, ma un insieme di mansioni da redistribuire verso il basso. Come se il problema non fosse la mancanza di infermieri, ma l’eccesso di competenze. Si ha la sensazione, leggendo tra le righe, che non siamo ancora del tutto riconosciuti come professionisti che offrono prestazioni intellettuali, ma come una forza lavoro da ottimizzare con soluzioni tampone.
L’altra faccia della medaglia: rendere infermieristica più “appetibile”
C’è però una prospettiva che va riconosciuta, anche se scomoda. Inserire una figura inferiore all’infermiere può rendere il percorso infermieristico più appetibile. Se esiste un gradino sotto, il gradino sopra sembra più alto, più prestigioso, più desiderabile. È una logica di mercato semplice: creare una scala per rendere più attraente il piano superiore. Ma attenzione, rendere appetibile un percorso non significa migliorare la professione. Significa solo migliorare il confronto. La professione cresce quando aumenta autonomia, riconoscimento, retribuzione, carriera. Non quando si abbassa l’asticella sotto di lei.
Il rischio silenzioso
Il rischio non è immediato, ed è per questo che è pericoloso. Nel breve periodo, il sistema sembra funzionare meglio. Nel medio periodo, l’infermiere diventa il punto intermedio di una catena. Nel lungo periodo, la professione rischia di essere percepita non come un vertice, ma come un passaggio obbligato. Non una meta. Una tappa.
E noi, nel frattempo?
C’è poi un ultimo elemento, interno alla professione, che non aiuta: la disunità. Dividersi tra favorevoli e contrari, tra chi difende il tappabuchi e chi lo combatte, senza una visione comune, rende tutto più semplice per chi decide dall’alto. Perché una professione che discute solo sugli effetti, e non sulle cause, è una professione facile da gestire.
Conclusione
Riempire i fossi può funzionare per un po’. Ma la strada resta dissestata. Finché si continuerà a rispondere alla crisi infermieristica con soluzioni al ribasso, la professione non crescerà davvero. Sarà solo più occupata. Più utilizzata. Più adattabile. E allora la domanda finale non è ideologica, è strutturale: vogliamo una professione infermieristica più appetibile perché c’è qualcuno sotto, oppure più forte perché finalmente riconosciuta per ciò che è davvero?
Guido Gabriele Antonio
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