Egregio Direttore,
l’allarme sollevato dal vostro recente articolo, che evidenzia i tempi di attesa superiori ai 20 minuti in 41 ASL su 110 secondo i dati AGENAS, è certamente un campanello d’allarme che richiede attenzione istituzionale per il nostro sistema di emergenza preospedaliera. Concordiamo con la senatrice Castellone sul fatto che il divario tra Nord e Sud e il tempo di attesa rappresentino un rischio per il cittadino.
Tuttavia, riteniamo che l’analisi risulti incompleta se circoscritta esclusivamente al fattore tempo di intervento. La criticità strutturale non risiede solo nel cronometro, ma nell’attuale difficoltà di garantire esiti clinici uniformi su tutto il territorio nazionale.
Quando un cittadino attende, ad esempio, 35 minuti, come nel caso di alcune realtà calabre, in caso di ictus, infarto o trauma maggiore, il ritardo non è una semplice statistica poichè compromette direttamente l’esito finale, aumentando il rischio di disabilità permanente o di mortalità.
Ogni ritardo nella perfusione tissutale e nel trattamento precoce può tradursi in un danno irreversibile. Il problema è che, finora, abbiamo misurato prevalentemente il processo (il tempo di arrivo del mezzo), senza porre sufficiente enfasi sull’unico dato che conta realmente per il paziente: l’esito clinico e l’entità della disabilità residua.
È necessario evolvere il modello operativo, superando la concezione del 118 come un servizio di mero trasporto o di guardia medica d’urgenza. La strategia per l’ottimizzazione non richiede solo più mezzi, ma una maggiore competenza a bordo e, soprattutto, l’adozione di una responsabilità misurabile che orienti le decisioni organizzative in base all’unico outcome sensibile: l’esito delle cure erogate.
L’unica strategia efficace per superare l’attuale modello sanitario frammentato è l’introduzione di indicatori di outcome clinici nazionali, che rendano ogni Azienda Sanitaria responsabile della qualità delle cure erogate e delle vite salvate.
Questo approccio è già consolidato nei sistemi sanitari più evoluti. Il National Health Service (NHS) inglese, ad esempio, ha adottato un cambiamento di paradigma misurando l’efficacia non con il tempo, ma attraverso indicatori specifici come la percentuale di pazienti con arresto cardiaco che vengono dimessi vivi dall’ospedale con esito neurologico favorevole. Questi Ambulance Quality Indicators vengono costantemente aggiornati e pubblicati, focalizzando l’investimento sul risultato clinico finale, anziché sulla sola logistica del trasporto.
Dobbiamo pertanto necessariamente introdurre metriche che dimostrino l’efficacia del soccorso preospedaliero, e non solo la sua rapidità. Ad esempio, è fondamentale verificare che la qualità dell’assistenza fornita riesca effettivamente a migliorare i tassi di sopravvivenza o a ridurre la disabilità post-evento. Questi indicatori rappresentano una leva strategica: il loro utilizzo orienta il sistema verso l’investimento nella specializzazione del personale e nell’adozione di algoritmi avanzati, garantendo che la cura erogata sia di alto livello clinico e incida positivamente sull’esito del paziente.
Concentrare l’attenzione esclusivamente sul ritardo logistico, invece che sull’esito clinico – ovvero se e come il paziente ritorna alla sua vita – rischia di eludere la vera discussione sulla qualità. Un sistema maturo e responsabile si valuta dalle vite che salva e dalla disabilità che previene, ed è in questa direzione che l’emergenza-urgenza italiana deve evolvere.
Yari Barnabino (Rappresentante Profilo Infermieri – AIES – Accademia Italiana Emergenza Sanitaria)
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