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Intervista ad Andrea, infermiere in pensione: “La nostra professione è un’arte. Non dimenticatelo mai”

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Dopo quarant’anni passati tra corsie, turni massacranti e momenti di profonda umanità, Andrea ha finalmente riposto la sua divisa. Ma il cuore, quello, è rimasto in reparto. Seduto davanti a un caffè, ci racconta cosa significa davvero essere infermiere e lascia qualche consiglio ai giovani che stanno iniziando questo percorso.

Andrea, com’è cambiata la professione rispetto ai tuoi inizi?

“Tantissimo. Quando ho cominciato, gli infermieri erano visti quasi come aiutanti dei medici, spesso trattati con sufficienza. Alcuni dottori ci consideravano semplici esecutori: fai questo, porta quello, chiama quell’altro. Il nostro valore non veniva riconosciuto e il rispetto scarseggiava. Oggi, grazie a tanti colleghi che hanno lottato, l’infermiere è una figura centrale, autonoma, fondamentale nella sanità. Ma c’è ancora molto da fare per ottenere il riconoscimento che meritiamo”.

Qual è la lezione più importante che hai imparato in questi anni?

“Che il nostro lavoro non si fa solo con le mani, ma anche col cuore. La tecnica la impari col tempo, ma se non hai empatia, se non sai guardare il paziente negli occhi e capire che dietro una diagnosi c’è una persona, allora hai sbagliato mestiere. Ho visto colleghi bravissimi sul piano tecnico, ma freddi. E ho visto infermieri che, con un semplice gesto, sapevano ridare speranza. La differenza la fa sempre l’umanità”.

Cosa diresti a un giovane infermiere che inizia oggi?

“Di non farsi piegare da chi lo sminuisce. Ti capiterà di incontrare persone che ti diranno che sei solo un infermiere, magari anche pazienti o famigliari che penseranno che il tuo lavoro sia meno importante di quello di un medico. Ma tu ricordati sempre: senza infermieri, la sanità si ferma. Non permettere a nessuno di farti sentire meno di quello che sei”.

E nei rapporti con i colleghi?

“Qui voglio essere chiaro: quando assisti qualcuno, sei collega di chiunque stia facendo lo stesso. Infermieri, oss, medici, tecnici di radiologia… Siamo tutti parte della stessa squadra. Ho visto troppi infermieri trattare gli oss con sufficienza, dimenticando che senza di loro il reparto non andrebbe avanti. E ho visto medici che ci guardavano dall’alto in basso, senza capire che senza di noi il loro lavoro sarebbe impossibile. Il rispetto deve essere reciproco. Non fate l’errore che tanti dottori hanno fatto con noi, trattandoci come camerieri. Cambiate le cose, dimostrate che si può lavorare con rispetto e collaborazione”.

Un consiglio che daresti a chi sceglie questa professione?

“Non smettere mai di imparare, ma soprattutto non smettere mai di sentire. La routine, la stanchezza e le difficoltà possono indurirti, ma se perdi la sensibilità, perdi tutto. E poi ricordati di prenderti cura anche di te stesso. Ho visto troppi colleghi consumarsi per il lavoro, dimenticando che per aiutare gli altri devi essere in equilibrio anche tu”.

Un aneddoto che non dimenticherai mai?

“Una notte, tanti anni fa, ero in turno in terapia intensiva. Un paziente anziano, consapevole che gli restavano poche ore, mi ha preso la mano e mi ha chiesto di restare con lui. Non aveva parenti, era solo. Ho passato la notte accanto a lui, in silenzio. Poco prima di andarsene mi ha stretto la mano con le poche forze che gli rimanevano e mi ha sussurrato: ‘Grazie per avermi fatto compagnia’. Quel giorno ho capito che il nostro lavoro non è solo curare, ma esserci. A volte la cosa più importante che possiamo fare è semplicemente non andarcene”.

Ultime parole per i giovani infermieri?

“L’infermieristica è un’arte, non dimenticatelo mai. Siate fieri di ciò che siete, perché siete il cuore dell’assistenza. E quando la fatica si farà sentire, ricordatevi sempre perché avete iniziato”.

Matteo Lucio Maiolo

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