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‘Attimi di noi’ – storie di adolescenti con tumore: il racconto di ANNA

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‘Attimi di noi’ – storie di adolescenti con tumore: il racconto di ANNA
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Riprendiamo il nostro viaggio all’interno della raccolta “Attimi di noi” storie di adolescenti con tumore, supportati dall’associazione di volontariato ‘Adolescenti e cancro’, a cui il nostro giornale vuole dare ampia visibilità riprendendo ognuna delle 19 storie, presentate da giovani adolescenti, ragazzi che hanno deciso di far conoscere la storia della loro vita dal momento in cui hanno scoperto di avere un tumore. 

Che cosa vuol dire avere sedici, diciotto o vent’anni e sentirsi dire “hai il cancro”?

Che ripercussioni può avere su un giovane, una diagnosi ricevuta da bambino?

Quella che vi proponiamo oggi è la storia di: ANNA.

 

Mi presento: mi chiamo Anna, ho diciannove anni e abito in un paesino in provincia di Caserta, in Campania. Mi sono diplomata a luglio al liceo artistico, con 88/100. Ho preso un anno tutto per me, un anno per riorganizzare la mia vita, e l’anno prossimo inizierò l’Università (indirizzo: Beni Culturali) perché mi piacerebbe lavorare nel mondo dell’arte. Nel tempo libero adoro leggere, ricamare, disegnare e anche stare al computer. Non ho un vero e proprio nomigliolo, solo mio padre mi chiama “Nardi” da quand’ero piccina, forse collegato al cognome di mia nonna. Quando sarò più grande, mi piacerebbe diventare una di quelle eccezionali volontarie che passano molto tempo con i bambini in ospedale ad ascoltare, giocare e rendere una giornata un po’ normale.

I miei precedenti fidanzati associavano il cancro a un virus contagioso, e da allora io associo loro a “malati d’ignoranza”. Il mio album musicale preferito è e sarà per sempre “The Wall” dei Pink Floyd, uno dei miei complessi musicali preferiti. Non ho un film preferito, però adoro particolarmente il genere horror. I miei colori preferiti sono il nero, tutte le tonalità dell’azzurro e il lilla.

Uno dei miei più cari pregi? Forse essere paziente, cosa che mi ha aiutata molto durante il mio percorso oncologico, e uno dei miei più brutti difetti? Sono molto permalosa.

Adesso vi racconterò della mia relazione con il signor cancro, durata per ben quattro anni. Ammetto che non è una bella cosa, combattere contro qualcosa di molto cattivo durante l’adolescenza, ma devo anche ammettere che ho imparato tanto, una buona lezione di vita. Adesso prima di lamentarmi delle cose superficiali, ci penso un attimo sopra!

Frequentavo la seconda media quando dovetti rimanere a casa per circa due settimane. Niente di che, solo la solita influenza d’inizio autunno. L’unica cosa strana era che durante la febbre altissima, mia mamma e le mie zie si accorsero che avevo il collo gonfio nel lato desto. Al tatto si muoveva, era duro e non faceva male, insomma avevo una noce sotto pelle. Mia nonna disse che poteva essere la debolezza ma mia mamma, preoccupata, pensava fosse qualche problema alla tiroide, visto che nella mia famiglia ne soffrono un po’ tutti.

Dopo la visita dall’endocrinologo, dai vari accertamenti fatti risultò che era tutto nella norma, ma avevo solo la trachea storta e quindi di fare attenzione quando mangiavo. Alla fine comunque, il dottore mi prescrisse vari esami del sangue. L’emocromo era perfetto, ma mi ero beccata la mononucleosi, ed ecco spiegato il linfonodo al collo.

Per poco tempo feci una leggera cura di antibiotici e il medico disse a mia mamma di non fissarsi con il bozzetto al collo, perché non sarebbe andato via facilmente. Il tempo passò, ma il gonfiore al collo c’era sempre. Per me non era un problema, tanto non faceva male, ma non potevo mettere collane, era fastidioso. 16 Intanto iniziai il liceo e, com’era mio solito, a inizio scuola presi la solita febbre.

Durante questa nuova influenza spuntò un nuovo linfonodo, quella volta a sinistra. Sempre lo stesso medico disse ai miei genitori che ormai il mio corpo reagiva così, dopo la febbre, un nuovo amico da sopportare sul collo, ma assicurandoci che prima o poi sarebbero andati via. Dopo le vacanze natalizie di quell’anno scolastico, ritornata a scuola, mi accorsi che facevo le scale con fatica e dopo tanto sforzo mi partiva una forte tosse, ogni colpo era una lama nel petto.

Non erano le uniche stranezze: dopo la scuola, quando ritornavo a casa, saltavo sempre il pranzo, non avevo voglia di mangiare. I vestiti iniziavano a starmi larghi, era molto evidente per me e per tutti, anche perché sono sempre stata una ragazza abbastanza robusta, e per finire perdevo anche i capelli!! I miei genitori pensavano che io, vedendomi “grassa”, volessi fare una mia dieta personale, che consisteva nel digiuno. Tutti attribuivano i miei sintomi allo stress scolastico del liceo, ma quando iniziarono le vacanze estive, questi peggiorarono. Non si poteva continuare così, intanto avevo scoperto un terzo, nuovo linfonodo dietro l’orecchio.

Prima di partire per le vacanze, mia mamma mi portò da un altro medico. Una volta lì, questo mi visitò e controllò il mio collo, adornato dalle varie palline. Io gli dissi tutti i miei sintomi e lui sospettò qualcosa, mi prescrisse vari esami da fare. Erano tantissime cose da fare, e anche in fretta da come ci aveva consigliato il medico. Dati i molteplici esami medici da svolgere, i miei genitori mi fecero ricoverare all’ospedale, proprio il giorno del mio quindicesimo compleanno: 11 luglio 2011. Passai l’intera mattinata a fare prelievi, ecografie e raggi X. Nel pomeriggio arrivò la diagnosi, la risposta a tutti i miei malesseri, qualcosa che non mi sarei mai aspettata, il linfoma di Hodgkin, sclerosi nodulare, quarto stadio.

Un cancro del sistema linfatico. La cosa bizzarra è che avevo passato tutto il tempo a preoccuparmi dei linfonodi al collo, quando ne avevo tantissimi sparsi in tutto il torace e in tutta la pancia, un po’ ovunque. Il più grande era quello al mediastino, quattordici centimetri… Erano sorpresi di come io riuscissi ancora a respirare senza problemi. Dopo la tremenda notizia, fortunatamente non passai la notte lì in ospedale, ebbi la possibilità di ritornare a casa e festeggiare il mio compleanno con i miei parenti e amici.

Nel tragitto per tornare a casa, sentivo che in quel momento avevo una grande responsabilità. Il giorno dopo già ero in un altro ospedale, che di ospedale non aveva niente, dissi a mia mamma che mi sembrava una scuola materna. Quello è l’ospedale dove sono seguita tuttora. Anche se già sapevano la diagnosi, mi spiegarono che era da prassi fare 17 una biopsia e se necessario mettere un CVC (catetere venoso centrale) per le terapie. Il programma terapeutico era questo: sei cicli di chemioterapia ABVD in Day Hospital, più radioterapia per consolidamento. Per fare la biopsia a uno dei linfonodi al collo, bisognava andare in sala operatoria, procedura nuovissima per me, ma fu tutto veloce e senza preoccupazione. Prima d’iniziare la mia battaglia feci anche una PET, che serviva a individuare le cellule cattive nel mio corpo.

Quando iniziai la prima terapia, ero praticamente terrorizzata. L’infermiera m’inserì un ago cannula nella vena del braccio, al quale si attaccava una flebo collegata a un macchinario. Ricordo come se fosse ieri: faceva un caldo tremendo, io ero su un letto, ero stanca, la notte prima non avevo chiuso occhio, ma rimasi sveglia comunque, ero curiosa, volevo sapere di cosa si trattasse e come avrebbe reagito il mio corpo. Già sapevo che la chemio è un forte medicinale che ti fa perdere i capelli e ti fa vomitare, quindi psicologicamente ero pronta a tutto. Tornando a casa, mi accorsi che non avevo più niente al collo. Non potevo crederci, già aveva funzionato, e avevo fatto solo la prima.

Il giorno dopo già accusavo gli effetti collaterali: vomito, bolle in bocca, il gonfiore del cortisone e i capelli che cadevano a ciocche, fino a quando non diventai completamente pelata. I sei mesi passarono in un soffio, avevo fatto tutte le terapie nella vena periferica del braccio, ed ero già in remissione dal secondo mese. Ogni seduta di terapia non era poi così noiosa, avevo conosciuto tantissimi ragazzi come me, mi piaceva confrontarmi con loro, e anche fare progetti per il futuro. Iniziai le radioterapie, sedici in tutto. Ogni giorno vedevo la fine sempre più vicina, un’emozione indescrivibile. Durante le cure facevo una vita normale, anche se mi consigliavano di rimanere a casa per via dei valori bassi, quindi non mi mancava niente della mia precedente vita, tranne la scuola e il fatto che ero ingrassata parecchio.

Chi ne ha risentito parecchio del fatto che ero una malata di cancro, è stata mia sorella Ilaria, che all’epoca aveva dieci anni. Mi sento ancora in colpa nei suoi confronti, le ho tolto mamma quando lei ne aveva bisogno molto di più essendo piccola poi, anche se è brutto a dirlo, lei associava il tumore alla morte, come darle torto? Anch’io tutt’oggi penso ancora che potrei morire. Il rapporto con alcune mie amiche è diventato molto più forte, soprattutto con una perché in quel periodo suo fratello si ammalò di leucemia, quindi era più semplice confidarmi con lei, sicuro che avrebbe capito, ma ne ho perse anche, di amiche, qualcuna, non tante, ma sapete come si dice, solo i migliori restano! I miei professori e la preside della scuola sono stati molto tolleranti nei miei confronti e mi hanno dato l’opportunità di farmi studiare a casa, a volte venivano per interrogarmi e aggiornarmi sugli argomenti che stavano facendo in classe.

Adoro i bambini, e stando in un ospedale pediatrico ne ho incontrati 18 tantissimi, anche di ragazzi, dei quali sono diventata molto amica e molte volte ci siamo visti anche fuori dall’ospedale. Purtroppo abito nella cosiddetta “Terra dei Fuochi”: anche se è brutto a dirlo, il cancro è all’ordine del giorno, quindi agli occhi delle persone ero una ragazza normale e questo mi ha fatto molto piacere, odio la compassione!

Ci sono state anche persone che non conoscevo, molto carine nei miei confronti, mi dicevano che ero forte e che ero molto carina con i capelli corti. La vita senza cancro è stata fantastica, sono andata al mare, i capelli sono ricresciuti, ho perso tutti i chili che avevo preso, niente buchi sulle braccia e soprattutto niente nausea perenne. Mi godevo la vita al 100%, ma quella volta ero più responsabile, il cancro mi aveva segnata, ed io non potevo perdere la mia opportunità di stare bene per sciocchezze. Fu un anno meraviglioso, avevo anche dimenticato che ero una sopravvissuta al cancro. Andava tutto meravigliosamente bene, avevo terminato il terzo anno al liceo, avevo un fidanzato e iniziavano le vacanze estive 2013. Stavo benissimo, ma avevo un dolore lancinante lungo tutta la gamba destra.

In cuor mio ero serena, il linfoma non compare alla gamba, pensavo, ma ecco che si presentarono due vecchi sintomi: il poco appetito e il dimagrimento. Cercai di dare una giustificazione all’inappetenza: la perdita di mia nonna. Durante un controllo però, il dottore disse che la mia VES e la mia PCR erano molto alte e mi chiese se avessi sintomi strani, io gli dissi che avevo solo un forte dolore lungo tutta la gamba e lui la pensò come me: la gamba non è posto per un linfoma.

Mi fece fare comunque una TAC, che risultò negativa, e dopo un po’ una PET che purtroppo era positiva in pochi punti e, anche se nessuno se lo aspettava, compresa io, la parte più colorata era la gamba. Era sicuramente un linfonodo vecchio che era scivolato, ammise il dottore, e sicuramente era una recidiva, ma per iniziare una nuova terapia dovetti fare un’altra biopsia. Già m’informarono che quella volta le chemio sarebbero state più forti, quindi inserirono anche un catetere nella vena giugulare sinistra. Decisero di analizzare un linfonodo che si era colorato durante la PET, l’avevo sotto il seno destro. Una volta tolto e controllato, l’esame istologico risultò negativo; forse avevo una speranza, volevo tanto che si sbagliassero e che fosse solo un’infezione.

Non contenti, mi fecero anche la B.O.M. (Biopsia Osteomidollare), che risultò anch’essa negativa. Ero esausta, passavo un giorno in ospedale e un altro a scuola, perché non avevo nemmeno una carta che accertasse la ricomparsa del linfoma e giustificasse le mie assenze. Vedendomi molto provata, il mio dottore mi promise che dopo quell’ultima biopsia – questa volta sull’osso della gamba dove c’era il linfonodo scivolato – se questa fosse risultata negativa, egli mi avrebbe tolto il catetere e 19 valutato per un fattore infettivo.

Penso che il quattro dicembre 2013, il mondo mi sia crollato addosso: proprio l’ultima biopsia era positiva. Ricordo che ho pianto tantissimo, ero così sicura che non avrei mai avuto una recidiva e invece… Pregai letteralmente i miei medici affinché mi facessero iniziare le nuove chemio dopo le vacanze natalizie, nell’anno nuovo. Così nel gennaio 2014, dopo la nottata di capodanno, ero già pronta per iniziare il nuovo percorso, una nuova battaglia.

Ricordo che appena iniziò, ebbi la nausea e il vomito più brutto di tutta la mia vita, pensai che forse volevo morire e che quella volta non ce l’avrei fatta a sopportarlo. Quando tornai a casa dopo otto giorni in ospedale, mi sentivo come una bambola di porcellana, ero sempre piantata a letto, avevo le ossa doloranti, il cibo mi faceva schifo, l’acqua aveva il sapore del rame e non ci sentivo da un orecchio.

“Che fine avevo fatto?”, pensai. Sicuramente non era come la prima volta, stavo malissimo. Finiti i tre cicli di quella nuova chemio (chiamata DHAP) avevo ancora i capelli, ma ero ingrassata, sempre per colpa del cortisone, ho fatto la rivalutazione, ma purtroppo niente remissione. Non mi sono né arrabbiata né spaventata, mi sono sentita scocciata, non volevo fare altre terapie. Cambiai altri due nuovi protocolli, che comunque funzionarono come “acqua fresca”, la bestiaccia era ancora lì. Ho fatto una ricerca su Internet informandomi su quali erano le chemio che potevano ammazzare l’ospite indesiderato e purtroppo per iniziare una terapia sperimentale dovetti cambiare ospedale. A fine giugno mi sono trasferita a Roma, dove ho fatto sei cicli di Bendamustina e Brentuximab (chemio sperimentali), che mi hanno portato subito alla tanto attesa remissione.

Quel posto non mi piaceva, anche se ho incontrato tante persone e tanti bimbi fantastici, ma a Napoli mi sentivo più coccolata e a casa. Purtroppo è sorto un intoppo prima di ritornare giù, mi sono beccata un brutto virus, il citomegalovirus. Questo cosino fastidioso mi ha fatta dimagrire di tanti chili, ma mi ha anche fatto vomitare per un mese intero tutto ciò che mangiavo e mi ha causato un’emorragia retinica, l’abbassamento della vista e un ricovero di ventisette giorni!! Una volta in forma e salutati tutti, ero di nuovo a casa, pronta per fare l’autotrapianto con le mie adorate celluline staminali. Un consolidamento alla remissione sudata, una prassi per i recidivi del linfoma. Il nove febbraio 2015 mamma ed io siamo state ricoverate nel T.M.O. (Trapianti, midollo, osseo), di un ospedale di Napoli in una camera che si chiamava “Procida”, letteralmente sigillata, con un aspiratore sul soffitto che aspirava via tutti i germi e microbi. Odorava sempre di pulito e disinfettante; 20 qualsiasi cosa entrasse nel reparto, doveva essere sterilizzata.

Il mio letto era molto alto ed era anche una bilancia. C’era anche una TV, una scrivania e una poltrona letto per mamma. Non mancava niente, ogni giorno le volontarie mi portavano tantissime cose per passare il tempo, come computer, libri, la Wii, i corallini, fogli e matite, ecc. Anche se non potevo avere contatti con nessuno, se non con medici e infermieri che erano persone magnifiche, mi sono trovata benissimo, mi sentivo a casa. Dopo i sette giorni di chemioterapie per il condizionamento, è avvenuto il tanto atteso trapianto.

Ovviamente dopo sono iniziati i giorni orribili, niente più cibo, avevo la sacca nutrizionale, dolori alle ossa lancinanti, quindi morfina a volontà. Quando ho iniziato a star meglio e le cellule hanno attecchito, ho iniziato a fare le cose come i neonati: mangiare omogeneizzati, riuscire a camminare di nuovo, e molte altre cose. Dopo quaranta giorni sono ritornata a casa e, anche se la ripresa è stata difficile, adesso sono passati dieci mesi dal trapianto ed io sto benone, faccio tutto come prima. Sono riuscita a riprendermi in mano la mia vita, dopo la seconda volta.

L’emozione più grande è stata quando il dottore ha scritto sulla mia cartella clinica: “COMPLETAMENTE GUARITA”. Anche se è stata dura, ce l’ho fatta, io che mi definivo una debole, io che pensavo non ce l’avrei mai fatta e invece eccomi qui, “fuck cancer” per due volte, yeah.

Giuseppe Papagni

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