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Dietro ai sogni ci sono sacrifici che la gente non vede

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Ogni mattina mi reco a lavoro mezz’ora prima. Mi piace l’idea di percorrere il tragitto casa-ospedale con calma, senza la frenesia e l’ansia dei minuti che scorrono a meno dieci alle otto o del timbratore marcatempo incallito che aspetta il mio cartellino.

Voglio gustarmi la strada trafficata, condividere con altri automobilisti il dovere di recarsi al lavoro, girare la testa a destra e a sinistra per guardare, osservare il colore del cielo e ascoltare le news alla radio, fermarmi per un caffè prima di indossare il camice.

Lavorare deve essere una passione. Non riesco ad immaginarmi “costretta” in una divisa autorevole a fare ciò che non mi piace. La passione è un desiderio sfrenato per ogni cosa ti possa capitare, bella o brutta che sia, lavoro incluso.

E quando lavori con la malattia, dare speranza di guarigione con l’energia che ti viene da dentro, far stare bene o semplicemente assistere, con il bagaglio di conoscenze che ti porti appresso, significa fornire un servizio che non solo ti viene riconosciuto economicamente dall’azienda (ancora ai minimi termini rispetto alle prestazioni fornite, ma portiamo pazienza), ma soprattutto dal paziente felice, che parlerà di te e del tuo ospedale come di un “bel posto”. E ai giorni nostri, che un ospedale sia un “bel posto” è un premio per poche elette strutture.

Se studi con impegno puoi ottenere il ruolo che desideri. Un ruolo non necessariamente spiazza l’ordine gerarchico. E non intenderlo come un posto fisso. Un ruolo è il significato della nostra professione.

Significa un ruolo nella società odierna, annientata dall’egoismo e dall’opportunismo. Devi volerlo intensamente però, ed essere disposto a pagare il prezzo di questa rincorsa, in termini di limiti alla stanchezza, ore di sonno e annullamento temporaneo della vita sociale.

Anche la famiglia paga le spese della tua impresa a volte. Basta solo spiegarglielo ai tuoi che non sei impazzito.

Stai solo inseguendo i tuoi sogni, cercando il tuo ruolo nella società. Si tratta di un supplizio temporaneo, finché non otterrai quella felicità che ti consentirà di tornare a casa stanco ma soddisfatto, e potrai dimostrare ai tuoi cari che lavorare simboleggiando “un ruolo” e non indossando lo status di un camice o di una divisa, è appagante e bellissimo.

Ma soprattutto sarà un ruolo che renderà felice anche chi, col timbratore combatte ogni mattina all’ultimo secondo. Che sbuffa se la lista dei pazienti è infinita e se i campanelli non smettono di suonare. Che si lamenta se deve rientrare dal riposo per coprire il turno di un collega ammalato.

Lo dico a chi si lamenta per un’ora di lavoro in più che non gli viene pagata, o per la stanchezza del dover sorridere falsamente ai familiari di un paziente per compiacerli, quando si vorrebbe mandarli a quel paese.

Ehi, lo dico anche a chi da anni si lamenta del suo reparto e non hai mai avuto il coraggio di cambiare.

E pure a chi vorrebbe vedere riconosciuti tutti i pezzi di carta acquisiti all’università e pagati migliaia di euro. Master e corsi di specializzazione nel cassetto e un ruolo che ancora non gli viene riconosciuto.
E infine, lo dico a te che mi chiedi come sia possibile vestire i panni della felicità e indossare un sorriso sghembo tutte le mattine, emanare il buon umore e indossare la maschera della serenità che tanto i problemi sono solo altrui.

Non è ora di dare il vero senso al master che stai frequentando?

E se proprio non ci riuscirai, perchè solo capi muti, sordi e ciechi hai, d’accordo, resta dove sei, ma coltivati “un ruolo” con i pazienti.

Sii nome e cognome e non semplicemente l’infermiera in camice bianco con i capelli lunghi e le penne sul taschino.

Presentati quando li incontri, anche se lavori in un ambulatorio, e rassicurali ogni volta che entri nella loro stanza. Inventa una frase di circostanza, osserva i loro comodini. Fai loro domande e chiedi come stanno sedendoti trenta secondi sulla sedia accanto al suo letto. Trenta secondi. Metti le mani sugli addomi e visitali con il fonendoscopio.

Controlla i loro piedi, toccali (non lo fa nessuno), senti i muscoli contratti della schiena. Insegna ai familiari a mettere le creme idratanti ai loro malati. In tutto ciò, tu farai esperienza clinica e loro si sentiranno curati, assistiti e al sicuro.

E, i tuoi titoli e la tua esperienza, ti saranno serviti per fare meglio ciò che finora non ti ha soddisfatto. E credimi, tornerai a casa vestendo i panni della felicità e indossando un sorriso sghembo tutti i giorni.

Emanerai il buon umore e imparerai ad indossare la maschera della serenità.

Tu, dipendente felice.

Si, anche con un master nel cassetto, nascosto, e mai ostentato.

 

Fanni Guidolin

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