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Volontariato in Uganda: l’esperienza dell’infermiere italiano Vincenzo Cologna

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Volontariato in Uganda: l'esperienza dell'infermiere italiano Vincenzo Cologna 4
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Abbiamo realizzato un intervista con questo giovane collega, che lavora nel reparto di HIV/Oncology del Chelsea and Westminster Hospital, a Londra.

Fare volontariato in un Paese del cosiddetto terzo mondo è un’esperienza che tutti consideriamo avvincente. Quello che non immaginiamo è che, dietro le quinte, bisogna affrontare sfide particolarmente impegnative. Superarle rende l’intera esperienza ancora più gratificante e la imprime per sempre nei propri ricordi. Ne ho parlato con Vincenzo Cologna, infermiere presso il Dipartimento di HIV/Oncology del Chelsea and Westminster Hospital di Londra, reduce da un periodo di tre mesi in Uganda, dove ha contribuito alla nascita di un nuovo progetto di cooperazione con le popolazioni locali, per conto di una ONG.

Perché hai deciso di intraprendere un’esperienza di volontariato? E perché proprio in Uganda?

Volontariato in Uganda: l'esperienza dell'infermiere italiano Vincenzo ColognaColtivavo da sempre il sogno di trascorrere un periodo come volontario all’estero, in particolare in Africa. Una volta conseguita la laurea in Infermieristica in Italia, mi sono trasferito a Londra per lavorare come ragazzo alla pari, in modo da maturare un buon livello di conoscenza della lingua inglese. Quando ho ritenuto di essere pronto per lavorare come infermiere, mi sono iscritto al Registro NMC e sono stato assunto poco tempo dopo dal Chelsea and Westminster Hospital, dapprima in una unità operativa di medicina, poi in una specializzata nell’assistenza a pazienti oncologici e portatori di HIV, dove lavoro tuttora. Nel frattempo ho iniziato a esaminare i siti web di organizzazioni di volontariato, alla ricerca di opportunità di inserimento in progetti di cooperazione internazionale. La mia scelta è infine caduta su una charity inglese, la VSO (Voluntary Service Overseas), che stava reclutando volontari per ben 17 Paesi diversi tra Africa e Asia.

Come è avvenuta la selezione? E come hai conciliato il tuo lavoro presso il Chelsea and Westminster Hospital con l’inizio della tua esperienza di volontariato?

Prima di essere reclutato, ho dovuto superare tre selezioni attitudinali: una di gruppo, una individuale, infine un training di cinque giorni a Leicester. Si trattava, in buona sostanza, di testare la mia motivazione e la mia capacità di lavorare in team. Ho poi espresso, tra le destinazioni possibili, la mia preferenza per il continente africano e mi è stato proposto di recarmi in Uganda per un nuovo progetto. Rispetto al mio lavoro come infermiere avevo appena superato il colloquio per trasferirmi presso l’unità operativa di HIV/Oncologia. Quando comunicai l’intenzione di partire come volontario i miei manager opposero alcune resistenze, ma ero molto determinato ad andare (ho 25 anni, il limite massimo di età per prendere parte ad alcuni dei progetti della VSO). Alla fine ottenni un periodo di circa quattro mesi di unpaid leave (aspettativa non retribuita).  Le sfide iniziali non erano finite: la VSO copriva per ogni volontario buona parte delle spese, tra cui quelle di viaggio e di assicurazione medica, ma gli chiedeva di contribuire alle stesse attraverso una raccolta fondi finalizzata a raggiungere l’obiettivo di 800 sterline. Devo ammettere che non è stato facile per me chiedere un contributo economico ad amici e conoscenti.

In cosa consisteva il progetto ugandese? Come vi siete inseriti nelle popolazioni locali?

Volontariato in Uganda: l'esperienza dell'infermiere italiano Vincenzo Cologna 1Dopo una settimana di ambientamento nella capitale Kampala, io e altri sei volontari partiti dal Regno Unito (tra i quali ero l’unico infermiere) e sette volontari nazionali siamo stati trasportati nel Distretto di Lira. Si tratta di un centro urbano di circa 150mila abitanti, ma costituito da numerosi piccoli villaggi, disseminati a distanza di decine di chilometri tra loro, nella savana ugandese. Ognuno dei volontari provenienti dal Regno Unito era stanziato in coppia con un volontario nazionale (con cui condividevo la stessa stanza) in un villaggio differente, presso una famiglia ospitante. In buona sostanza, abbiamo sperimentato per tre mesi le stesse condizioni di vita delle popolazioni locali. All’inizio ci recavamo tutti insieme nei villaggi locali, raccogliendo dati sui bisogni di salute (e non solo) delle popolazioni locali, in modo da poter elaborare successivamente programmi di educazione e cooperazione allo sviluppo idonei alle loro esigenze. Disponevamo, per le nostre spese personali, di una allowance, una sorta di retribuzione mensile di 100mila Ugandan Shillings, pari a 25 sterline circa, messa a disposizione dalla ONG. Si trattava, comunque, di un importo assolutamente sufficiente a soddisfare le nostre esigenze, dato il costo della vita incredibilmente basso e lo scarso potere d’acquisto della valuta locale in rapporto alla sterlina.

A che tipo di iniziative avete successivamente dato vita?

Nella seconda fase del progetto ci riunivamo spesso in un hotel del centro urbano per lunghi briefing, allo scopo di organizzare eventi che avrebbero dovuto coinvolgere la popolazione locale. Ognuno di noi collaborava alle iniziative sostenute da altri volontari, che potevano spaziare su molti settori, come ad esempio la gestione delle attività agricole. In quanto unico infermiere del gruppo, spingevo molto per avviare programmi legati ai bisogni di salute della popolazione locale, soprattutto in materia di educazione sessuale e di prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili come l’HIV, che costituisce un’autentica piaga in quel Paese. Circa 1.4 milioni di persone sono sieropositive e molte donne trasmettono il virus ai figli, con il parto. Pertanto esercitavo forti pressioni per recarmi in ospedali e ambulatori del posto e ho successivamente organizzato incontri educativi con I giovani ugandesi, ma ci siamo talvolta prodigati anche in attività puramente manuali, come la pulizia degli ambienti ospedalieri, cui abbiamo anche donato ramazze e disinfettanti, perché ne sono del tutto sprovvisti e le condizioni igieniche sono davvero carenti. L’assistenza nelle strutture ospedaliere non è, purtroppo, affatto paragonabile agli standard europei, come ho potuto sperimentare sulla mia persona. In questo secondo step del progetto, ho allacciato rapporti molto stretti con una ONG locale, la Child Hug Uganda, impegnata nell’assistenza a bambini orfani, giovani madri portatrici di HIV e ai loro figli. Li ho seguiti in molte loro attività, avendo legato con il fondatore, un medico ugandese. Al contrario, non nascondo di aver incontrato alcune resistenze negli altri cooperatori.

Come vi siete integrati con la popolazione locale? Come giudichi l’accoglienza ricevuta?

Volontariato in Uganda: l'esperienza dell'infermiere italiano Vincenzo Cologna 2C’era molta diffidenza all’inizio, per via delle culture totalmente diverse. Durante alcune fasi del progetto alcuni ci approcciavano con diffidenza o addirittura ci chiedevano dei soldi, credendo fossimo ricchi. La VSO ci aveva caldamente avvisato, per tutelare la nostra incolumità, di non portare con noi in Uganda oggetti personali di valore e ci aveva imposto il coprifuoco dopo le 19, anche perché, essendo l’intera zona avvolta dal buio durante la notte, rischiavamo di perderci, come talora mi è accaduto. La popolazione del distretto, una volta entrata in confidenza con me e compreso il mio ruolo, soprattutto avendo realizzato che non ero una spia al servizio del Governo, mi ha riservato un calore e un affetto che difficilmente dimenticherò. Non si tratta di popoli ostili, né con gli stranieri né tra loro. Tutt’altro. Le guerre che spesso li dilaniano sono causate da lotte per il controllo del potere nella Nazione. A essere onesto, le uniche difficoltà che ho incontrato, lungo tutta la durata della mia esperienza, sono state quelle legate al clima: le elevate temperature e l’alto tasso di umidità mi causavano una persistente cefalea dovuta alla disidratazione, e i problemi gastro-intestinali non sono mancati. Perlomeno, grazie alle creme repellenti, non ho dovuto soffrire l’assalto dei mosquitos, le zanzare locali, che insieme ad altre insidie hanno invece costretto un paio di volontarie ad abbandonare già pochi giorni dopo l’arrivo in Uganda. La bellezza dei paesaggi e la meraviglia della natura selvaggia mi ha però ripagato di queste traversie.

Come valuti la sensibilità alle problematiche di salute degli Ugandesi?

Sono rimasto davvero sorpreso dalla ricettività dei giovani. Hanno immediatamente compreso le modalità di trasmissione di patologie come l’HIV e l’importanza del condom, il cui uso è ancora considerato spesso un tabù per effetto di pregiudizi legati alla religione. Non dobbiamo tuttavia pensare che la società ugandese sia totalmente schiava di anacronistici divieti: ciò che viene pubblicamente proibito, viene praticato di nascosto. Ecco allora che, benché illegali,i rapporti omosessuali ed extraconiugali sono largamente diffusi, purché rimangano nel segreto della famiglia. In caso contrario, I colpevoli subiscono l’umiliazione e l’allontanamento dalla comunità. Altro discorso è quello relativo alla prostituzione, comunque diffusa più nella capitale che nei piccoli villaggi, ma esercitata spesso senza preservativo e quindi vettore significativo di patologie sessualmente trasmissibili. C’è ancora molto da lavorare per vincere dogmi e pregiudizi, oltre che per superare le mille difficoltà logistiche. Benché molto competenti nel trattamento di patologie come l’HIV, la tubercolosi e la malaria, spesso I sanitari ugandesi sono impossibilitati a prestare le cure necessarie ai pazienti perché non riescono, per periodi anche lunghi, a ricevere le forniture dei farmaci necessari.

Ripeteresti un’esperienza simile?

Volontariato in Uganda: l'esperienza dell'infermiere italiano Vincenzo Cologna 3È stato estremamente faticoso. Tuttavia, non solo vorrei ripeterla, ma lo farò di sicuro, preferibilmente in veste di professional volunteer, ovvero di infermiere specializzato nella salute sessuale e riproduttiva, focalizzandomi così su progetti di cooperazione più in linea con le mie competenze professionali. Nel frattempo ho dichiarato il mio interesse a essere inserito in programmi di formazione post-universitaria, per specializzarmi nell’assistenza ai pazienti portatori di HIV. Il Chelsea and Westminister Hospital rappresenta un centro europeo di riferimento in questo settore e offre molte opportunità di crescita professionale. Anche se sono consapevole che aderire a nuovi progetti di volontariato comporterà periodi di sospensione del mio stipendio, non vedo l’ora di ripartire, vista lenorme gratificazione personale, la passione che ho nello svolgere il mio lavoro nei Paesi in via di sviluppo e la soddisfazione che ho trovato nella riuscita del progetto, che è in corso ancora oggi.

Luigi D’Onofrio

 

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