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Storie di infermieri. Lavorare in UK, la scelta di Alfonso Bertazzi

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Il team di Nursetimes ringrazia Alfonso Bertazzi per la sua disponibilità nel concederci questa intervista. Una testimonianza importante per tutti quei colleghi in cerca di un futuro professionale, un’opportunità di crescita, tutte garanzie che purtroppo oggi l’Italia non riesce più ad assicurare. La storia di Alfonso Bertazzi rappresenta la vittoria di una generazione viva e che crede nel merito, che lotta per affermare le proprie capacità, una generazione che reagisce e che vuole essere protagonista del proprio futuro. Una speranza  per tutti i colleghi! 

1. Presentati ai nostri lettori.
Mi chiamo Alfonso Bertazzi, lavoro da circa 8 mesi in un reparto di chirurgia specialistica ORL e maxillo-facciale in un Trust NHS dell’Inghilterra sudorientale. Ho lavorato per vent’anni nell’industria informatica e poi, dopo un periodo di riflessione personale, ho deciso di tornare all’Università e laurearmi in infermieristica.
2. Quando hai pensato di trasferirti in UK e perché?
Al terzo anno di infermieristica, nel 2013, ma è stato un anno molto intenso e questo mi ha portato ad una decisione definitiva solo dopo la laurea. Ho speso qualche mese ad informarmi, a riacquisire il mio inglese e finalmente a perseguire attivamente il mio obbiettivo. Quello che offriva (e tuttora offre) il mercato del lavoro italiano non era all’altezza delle ragioni per cui avevo scelto il mio nuovo mestiere. Il Regno Unito rappresentava un’ottima via per dare un senso ai tre anni di studio appena terminati.
3. Come è stato il primo impatto? Il tuo rapporto con la nuova realtà?
Ottimo da un lato e dall’altro molto sfidante, perché per quanto bene si sappia l’inglese, non c’è nulla che ti prepari alla lingua viva del reparto, alla velocità con cui si comunica, alle diverse pronunce, al gergo e alle abbreviazioni. E per mettersi veramente in pari non c’è che il tempo, il progressivo adattarsi dell’orecchio, un processo che purtroppo non si può accelerare con lo studio o supplementari esercizi di ascolto. Ho avuto due settimane di orientamento e training e due altre settimane di affiancamento. Poi ho iniziato a seguire in autonomia i miei pazienti, anche se di fatto non si è mai soli e ci si aiuta molto fra colleghi quando i carichi di lavoro sono sbilanciati o non si hanno le competenze per svolgere tutte le attività assistenziali necessarie. C’è molta più tecnologia e documentazione che in Italia, e ci sono molte più figure e team di consulenza e supporto a cui ricorrere. Il rovescio della medaglia è che talvolta il sistema può risultare eccessivamente farraginoso e burocratizzato.
4. Il rapporto con i tuoi colleghi?
In media molto buono. La cosa che apprezzo maggiormente è il rispetto e la tolleranza reciproca, anche nella diversità di posizioni, e la cortesia professionale che è dovuta da tutti a tutti, dai primari alle housekeeper.
5. Qual’è la considerazione e quindi il valore dell’infermiere all’interno della società anglosassone?
Tradizionalmente maggiore rispetto all’Italia. Nonostante i problemi che qui pure ci sono e che sono costantemente al centro dell’attenzione pubblica, il ruolo dell’infermiere nella società gode senza dubbio di più alta considerazione. Non parliamo poi dell’efficacia d’azione degli organismi professionali e sindacali e la loro capacità di incidere sul governo clinico e sulla politica nazionale in materia di sanità. Al confronto, il velleitarismo quando non l’opportunismo delle equivalenti istituzioni e dei loro rappresentanti in Italia appare disarmante.
6. In relazione alla tua personale storia familiare come hai vissuto questo trasferimento? Quali adattamenti hai dovuto apportare al tuo stile di vita? Torneresti in Italia?
Ho una compagna e presto moglie che ha accettato che partissi e che mi raggiungerà appena possibile. Ho genitori ancora in gamba e non ho figli. Molti miei amici lavorano da tempo in altri paesi. A dispetto dell’età la mia situazione personale non ha posto quasi nessun vincolo al trasferimento nel Regno Unito. Ci si adatta ad una soluzione abitativa meno confortevole, al fatto di vedere la famiglia una volta al mese e di usare molto di più Skype e i social networks. Ci sono troppe cose che non mi piacciono in Italia per viverci e lavorarci ancora. Inoltre sono molto pessimista sul suo futuro economico e sulle reali possibilità di arrestarne il declino. Semplicemente, non è più un Paese che dia ragionevoli garanzie a chi vuole costruirsi una vecchiaia serena.
7. Quali sono i tuoi progetti a lungo termine?
Progetti a lungo termine non ne faccio per il momento. A breve e medio termine prevedo di cambiare Trust e spostarmi in una zona d’Inghilterra dove mia moglie abbia maggiori probabilità di trovare un buon lavoro. Cerco un Trust universitario grande e in buona salute dove siano offerte concrete possibilità di training e istruzione specialistica.
8. Possibilità di carriera e autonomia dalla classe medica, due condizioni ancora lontane dalla realtà infermieristica italiana. Raccontaci le tue aspettative.
I percorsi di carriera sono innumerevoli, sia dal punto di vista specialistico, che clinico o manageriale. C’è spazio anche nell’insegnamento universitario e nella ricerca. All’interno degli ospedali gli infermieri hanno una gerarchia separata dalle altre figure sanitarie e al cui vertice c’è il direttore infermieristico che siede nel consiglio di amministrazione del Trust. E ci sono infermieri a livello ancora più alto con responsabilità regionali e nazionali. Chiaro che per progredire in senso manageriale occorre una padronanza della lingua che nel caso di uno straniero arriva generalmente solo dopo molti anni. Ma più che dalle possibilità di carriera, sono colpito dalla grande flessibilità con cui si può bilanciare vita lavorativa e familiare. Un mio collega portoghese dopo un paio d’anni come dipendente in una rianimazione ha deciso di licenziarsi e diventare infermiere d’agenzia. Guadagna parecchio di più lavorando 12 giorni al mese concentrati in 2 settimane e trascorre il resto del tempo nella sua casa in Portogallo. Non so quanto durerà questa fase storica, ma al momento in Inghilterra è seller’s market come dicono e basta solo guardarsi intorno, ci sono opportunità in qualsiasi direzione.
9. L’ultima domanda è d’obbligo: quale messaggio, quale consiglio senti di dare ai tanti colleghi italiani disoccupati/precari?
Parto dal presupposto che ciascuno scelga di fare le cose in cui crede e che ritiene migliori per sé, quindi nessun consiglio. Qui ci sono colleghi di buona volontà che mettono a disposizione il loro tempo e spazi di condivisione sul web. La realtà britannica, non solo quella sanitaria, è capillarmente descritta sul web. Le informazioni oggi dunque ci sono e abbondanti per decidere con senno, il resto è scelta individuale che va rispettata. Certo è che in quelle scene sempre più frequenti che arrivano dai telegiornali nazionali, di migliaia di candidati per una manciata di posti a concorso per infermiere, c’è tutta la tragedia di un’intera generazione umiliata e di una professione ripiegata su sé stessa.

Grazie Alfonso Bertazzi e buon lavoro!

Giuseppe Papagni

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