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Si può fare a meno dell’infermiere? Quando la burocrazia dimentica che dietro ogni cura c’è una persona, non un algoritmo di risparmio

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Rear view of female nurse assisting senior woman with walker in nursing home. Horizontal shot.
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La Puglia ci riprova. In un colpo solo la Giunta regionale ha deciso che nelle Rsa si può “ottimizzare” il personale, sostituendo l’infermiere con l’operatore socio-sanitario (oss). Una mossa presentata come razionale, quasi illuminata: “Si garantisce comunque l’assistenza di base”, dicono. Peccato che tra “assistere” e “curare” ci sia lo stesso abisso che passa tra un abbraccio e una diagnosi.

Sì, perché l’infermiere non è una presenza ornamentale in corsia, né un costo da tagliare come una voce di bilancio scomoda. È la figura che tiene insieme tutto: la clinica e l’umano, la scienza e la compassione, la tecnica e la relazione. Ma oggi sembra che l’idea di risparmiare qualche euro valga più della sicurezza e della dignità di chi si affida a noi.

E così nasce la “Rsa 2.0”, dove l’infermiere diventa un lusso opzionale, un personaggio secondario in un sistema che confonde l’assistenza sanitaria con la sola assistenza alla persona. È un po’ come chiedere a un autista di pilotare un aereo perché “tanto entrambi sanno guidare”.

“Ma tanto fanno le stesse cose, no?”

No. Non fanno le stesse cose. Un oss svolge un ruolo prezioso e insostituibile nel prendersi cura dei bisogni quotidiani dell’assistito. Ma l’infermiere – oltre alla stessa vicinanza umana – possiede competenze scientifiche, capacità cliniche e responsabilità legali che non si improvvisano.

L’infermiere valuta, pianifica, monitora, interviene e previene: non esegue soltanto, ma decide con consapevolezza. La differenza non è solo nelle mansioni, ma nel livello di responsabilità e nel valore della sicurezza che offre a ogni paziente.

Sostituire un infermiere con un oss non è una scelta “organizzativa”: è una sottrazione di competenze, una diluizione della qualità assistenziale, e – lasciatemelo dire – un insulto a chi ogni giorno porta sulle spalle un carico di cura che non si misura in turni, ma in umanità.

Dietro ogni firma, una persona che si fida

Dietro ogni terapia somministrata, ogni parametro valutato, ogni sguardo rassicurante, c’è un infermiere che ha studiato, si è formato, ha imparato a riconoscere il segno sottile tra stabilità e crisi, tra vita e rischio.
 Chi conosce il mondo delle Rsa sa bene che lì, più che altrove, servono occhi esperti, mani competenti, cuore vigile.

Perché il paziente anziano fragile non è un “ospite”: è un essere umano sospeso tra la vulnerabilità e la speranza. E allora la domanda è semplice: chi risponderà, domani, se qualcosa andrà storto? Chi si assumerà la responsabilità di una valutazione clinica mancata, di un peggioramento non riconosciuto, di un dolore non ascoltato?

Non stiamo difendendo una categoria, ma un diritto

Difendere la presenza infermieristica nelle Rsa non è un atto corporativo, ma una battaglia per la qualità della vita di chi ci vive e di chi ci lavora. Ogni delibera che riduce il ruolo dell’infermiere in nome del contenimento dei costi è un passo indietro di decenni di evoluzione sanitaria.

È un segnale pericoloso: dice ai giovani che studiano infermieristica che la competenza non serve, che la responsabilità non conta, che la scienza può essere sostituita da “buona volontà”. Ma la cura non è un mestiere che si improvvisa. E chi oggi firma quelle delibere, domani – forse – sarà il primo a desiderare un infermiere accanto.

Non siamo indispensabili. Finché non manchiamo

L’ironia amara è tutta qui: l’infermiere è invisibile finché non serve, poi diventa indispensabile.
 E quando non c’è, lo si scopre troppo tardi. La qualità dell’assistenza non si misura con i risparmi in bilancio, ma con le persone che tornano a casa vive, serene, ascoltate. La Puglia non ha bisogno di meno infermieri, ma di più coraggio, più rispetto e più lungimiranza.
 Perché la vera economia non è quella dei numeri, ma quella della vita che si cura.

Guido Gabriele Antonio
Infermiere Asl Brindisi

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