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Parkinson: ambroxolo come possibile terapia contro il declino cognitivo

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Parkinson, identificato marcatore che rileva la malattia
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Uno studio di fase 2 pubblicato sulla rivista JAMA Neurology ha testato sicurezza e tollerabilità dell’ambroxolo come potenziale trattamento per il decadimento cognitivo associato alla malattia di Parkinson, evidenziandone la possibile capacità di sbarrare il passo alla progressione degenerativa.

L’ambroxolo, farmaco mucolitico ed espettorante, ampiamente usato per trattare le malattie respiratorie che causano un’eccessiva produzione di muco denso, normalmente agisce fluidificando il muco e facilitandone l’eliminazione. In tal modo contribuisce a liberare le vie respiratorie. Dallo studio è però emerso che può legare infatti un enzima coinvolto nel declino cognitivo associato alla malattia di Parkinson.

Oltre al suo uso tradizionale come mucolitico, dunque, l’ambroxolo agisce come chaperone farmacologico, cioè come molecola che aiuta un enzima – in questo caso la β-glucocerebrosidasi – a ripiegarsi correttamente, stabilizzarsi e raggiungere la sua sede d’azione all’interno della cellula, migliorandone la funzione.

La β-glucocerebrosidasi è coinvolta nella degradazione di sostanze cellulari tossiche, come l’α-sinucleina, che si accumulano nel cervello dei pazienti con malattia di Parkinson e nelle forme correlate di demenza. Lo studio, durato 52 settimane, ha coinvolto 55 pazienti, trattati con ambroxolo a basso o alto dosaggio, oppure con placebo.

Ambroxolo è risultato sicuro e ben tollerato, con alcuni effetti gastrointestinali lievi più frequenti rispetto al placebo. I pazienti trattati hanno mostrato un aumento significativo dei livelli dell’enzima β-glucocerebrosidasi nel sangue, confermando che il farmaco è riuscito ad attivare il meccanismo biologico previsto.

Tuttavia non sono stati osservati miglioramenti significativi nella funzione cognitiva rispetto al gruppo trattato con placebo. Dunque ambroxolo ha dimostrato di agire sul meccanismo biologico desiderato (cioè aiutare l’enzima a funzionare meglio), ma senza effetti clinici evidenti sulla memoria o sulle funzioni cognitive, almeno in questa prima fase dello studio.

Abstract dell’articolo pubblicato su JAMA Neurology

Redazione Nurse Times

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