Riceviamo e pubblichiamo una nota a firma di Angelo Minghetti (Federazione Migep).
In Italia ci sono oltre 300mila operatori socio-sanitari che garantiscono ogni giorno la continuità dell’assistenza negli ospedali, nelle Rsa e nei servizi domiciliari. Una presenza costante, spesso silenziosa, troppo facilmente data per scontata. Eppure, senza gli oss, la sanità italiana non riuscirebbe a sostenere il peso crescente della domanda di cura, soprattutto in un Paese che invecchia rapidamente e che vede le famiglie sempre più sole nell’affrontare la fragilità.
La verità è che questa figura, pur essendo centrale nei fatti, continua a rimanere marginale nel diritto e nella percezione pubblica. L’oss è spesso trattato come semplice manodopera di supporto, chiamato a colmare le falle di un sistema fragile, senza essere riconosciuto come parte integrante del progetto di cura. Questa svalutazione non è casuale: discende da un quadro normativo ambiguo, da contratti che non riflettono il reale peso delle responsabilità e da una cultura sanitaria che fatica a dare dignità alle professioni di prossimità.
Ma pesa anche un’asimmetria di forza e rappresentanza: la maggiore coesione e capacità organizzativa della professione infermieristica ha spesso orientato scelte e priorità, relegando gli oss ai margini dei processi decisionali e dell’immaginario pubblico. Non è un atto d’accusa: è un dato politico. Finché gli oss non conquisteranno pari unità e voce, resteranno strutturalmente sottorappresentati.
Uno dei nodi principali è la confusione tra delega, attribuzione e responsabilità. In assenza di regole chiare si aprono zone grigie in cui l’oss viene spinto a svolgere compiti che vanno oltre le proprie competenze formali, senza che vi sia riconoscimento o tutela giuridica. Così la figura rimane sospesa: necessaria ma non valorizzata, utilizzata ma non riconosciuta. È un meccanismo che conviene a chi gestisce le risorse, ma che penalizza i lavoratori e, di conseguenza, i cittadini.
Ridurre l’oss a un mero esecutore materiale significa ignorare la realtà dell’assistenza. Non esistono cure efficaci senza relazione, senza osservazione, senza la capacità di cogliere i bisogni quotidiani delle persone. Sono gli oss, con la loro vicinanza costante, a garantire questa dimensione fondamentale, quella che unisce tecnica e umanità, professionalità e relazione. Il loro contributo non è secondario, ma complementare: è ciò che permette al percorso di cura di essere davvero completo.
La pandemia ha dimostrato con chiarezza quanto sia insostenibile un modello che continua a sottovalutare il lavoro di chi garantisce la quotidianità dell’assistenza. Senza gli oss, Rsa e reparti sarebbero collassati e le famiglie si sarebbero trovate abbandonate di fronte alla fragilità. Ma finita l’emergenza, la figura è tornata nell’ombra, priva di una collocazione chiara e di un riconoscimento proporzionato.
Non sarebbe tuttavia corretto attribuire tutta la responsabilità alle istituzioni o ai datori di lavoro. Una parte del problema riguarda la stessa categoria degli oss. Troppo spesso ci si è accontentati, ci si è adattati a rimanere ai margini, senza alzare la voce, senza pretendere di più. Una scarsa consapevolezza collettiva ha favorito il mantenimento dello status quo.
La rassegnazione, la paura di esporsi e la mancanza di unità hanno reso più facile relegare l’oss a un ruolo accessorio. Questo è un punto decisivo: senza un salto di coscienza da parte degli operatori stessi, nessuna riforma sarà sufficiente.
È tempo che gli oss diventino una categoria consapevole e protagonista. Non più forza silenziosa e dispersa, ma soggetto in grado di farsi ascoltare nei tavoli decisionali e nella società civile. La dignità non si riceve come concessione dall’alto: si costruisce dal basso, con la partecipazione, con la determinazione, con l’orgoglio di ciò che si rappresenta.
Serve dunque un cambiamento politico e culturale del pensiero. Politico, perché occorre ridefinire con chiarezza ruoli, competenze e responsabilità, eliminando le ambiguità che oggi generano sfruttamento. Culturale, perché bisogna superare la logica della gerarchia che riduce l’oss a figura subordinata, quando in realtà è un elemento imprescindibile dell’assistenza. Ma serve anche un cambiamento culturale interno alla stessa categoria, perché la dignità non è un titolo scritto in una legge, è un atto di coscienza collettiva.
La domanda è semplice: vogliamo rimanere una riserva di forza lavoro sottopagata e invisibile, o vogliamo diventare protagonisti di una sanità nuova? Vogliamo continuare ad accettare il silenzio, o vogliamo diventare una forza capace di cambiare la sanità? La risposta non riguarda solo una categoria professionale, ma il modello di società che vogliamo costruire. E non sta soltanto nella politica, ma anche in noi.
La dignità degli oss è la dignità dell’assistenza in Italia, ed è da qui che bisogna ripartire: da un cambiamento di pensiero, dal riconoscimento del Migep come unica istituzione di riferimento attraverso un registro nazionale e dal rafforzamento del sindacato di categoria SHC come strumento autentico di rappresentanza e tutela, sotto l’emblema degli Stati Generali. Perché quando una categoria prende coscienza del proprio valore, nessuno può più fermarla.
Redazione Nurse Times
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