Riceviamo e pubblichiamo il commento del vicepresidente dell’Associazione Avvocatura di Diritto Infermieristico, dott. Carlo Pisaniello, a una sentenza emanata dalla Corte di Cassazione .
Il fatto: la signora V.L., su indicazione dei chirurghi T.W. e B.F., veniva sottoposta, presso la European Hospital, a un’autotrasfusione preparatoria all’intervento chirurgico di inserimento di protesi all’anca destra (tipologia di intervento che comporta abitualmente grosse perdite sanguigne), programmato di lì a poco, nell’eventualità che si fosse reso necessario procedere successivamente ad una trasfusione.
La signora V. veniva quindi ricoverata presso la clinica Città di Roma per l’esecuzione del suddetto intervento chirurgico programmato; la paziente prima dell’intervento consegnava ai medici le analisi del sangue eseguite nell’aprile dello stesso anno, dalle quali risultavano dei valori decisamente alterati con piastrinopenia, leucopenia e VES elevata, e veniva quindi nuovamente sottoposta a controlli ematici.
La Sig.ra V. veniva comunque operata dai dottori W. e B., della cui equipe facevano parte anche il dott. F.R. come secondo aiuto e il dott. Z.D. come anestesista. La paziente, una donna sulla cinquantina fino a quel momento apparentemente in ottima salute, che conduceva una normale e attiva vita familiare, sociale, lavorativa e sportiva, non si riprendeva dall’operazione, presentando nel decorso post-operatorio febbre alta, valori bassissimi di emoglobina e globuli rossi e bianchi in calo.
Venne comunque dimessa dalla clinica Città di Roma e inviata a una clinica per terapia riabilitativa. Durante la permanenza nella clinica riabilitativa e anche dopo le dimissioni, avvenute a settembre, lo stato febbrile e di spossatezza non scomparirono, ma anzi aumentarono, arrivando fino a un rapido declino.
La signora V. venne colpita infatti da numerose infezioni e infine, durante un successivo ricovero, emerse che risultava positiva al test HIV, presumibilmente già presente prima dell’operazione ma a uno stadio iniziale e silente. In breve tempo la signora perse progressivamente l’udito e la vista, sviluppò il sarcoma di Kaposi, terribile e devastante cancro della pelle, fino alla morte durante il ricovero nel reparto degli ammalati di AIDS in stadio terminale.
I figli della signora V., ricorrono al tribunale penale di Roma nei confronti di tutti i componenti dell’equipe medica di entrambi gli istituti sanitari, di quello in cui venne eseguito il prelievo precedente all’operazione e di quello dove vennero eseguiti gli esami del sangue e l’operazione, nonché nei confronti del Ga., all’epoca presidente del consiglio di amministrazione delle due cliniche.
Il tutto al fine di accertare che il prelievo ematico prima e l’esecuzione dell’operazione dopo, nonché le modalità della degenza e le dimissioni dalla clinica Città di Roma, caratterizzate da integrale assenza di accertamenti e cure nel periodo di degenza pre e post operatoria e dalle dimissioni in grave stato di salute dalla casa di cura Città di Roma, furono la causa o quanto meno costituirono le concause della morte della loro madre, e anche per chiedere che, tutti i medici, nonché le due strutture sanitarie, fossero condannati in solido a risarcire loro tutti i danni conseguenti alla morte della madre.
In materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, anche la struttura presso la quale il paziente risulti ricoverato risponde della condotta colposa dei sanitari, a prescindere dall’esistenza di un rapporto di lavoro alle dipendenze della stessa, atteso che la diretta gestione della struttura sanitaria identifica il soggetto titolare del rapporto con il paziente.
L’aver solo ospitato all’interno della propria struttura uno o più medici che abbiano compiuto attività medico-chirurgiche su una paziente, senza rispettare le regole di prudenza e provocando alla paziente un danno, è fonte, oltre che di responsabilità diretta dei medici, anche di responsabilità nei confronti della danneggiata in capo alla struttura sanitaria per il c.d. “contratto di spedalità”, senza che questa possa esimersi da tale responsabilità, pur se afferma di non essersi occupata delle scelte tecniche o di non aver partecipato alle attività svolte dai responsabili, o di non esser stata neppure portata a conoscenza di esse (Cass. n.7768 del 2016).
La responsabilità civile dei medici di fiducia della paziente è stata accertata in maniera completa dal giudice di merito, ossia nella prima parte delle attività pre-operatorie: infatti essi sottoposero la paziente ad autotrasfusione senza alcuna cautela, in violazione delle più elementari regole di prudenza, in quanto non furono eseguiti esami di sangue preliminari importanti come i markers dell’epatite. E’ quindi irrilevante l’affermazione della clinica in merito alla propria irresponsabilità, poiché il suo personale partecipò direttamente alla scelta dell’autotrasfusione e non esaminò lo stato di salute della paziente.
E’ fuorviante considerare la gestione di una struttura sanitaria alla stessa stregua di una struttura alberghiera, il cui gestore risponde solo delle pulizie e dell’ordine dei servizi offerti e non deve quindi preoccuparsi di quanto avviene all’interno delle camere. Se si applicasse un simile ragionamento, le strutture sanitarie non sarebbero chiamate a rispondere neppure se, all’interno di esse, sanitari non dipendenti, utilizzando le sale operatorie a fronte di un corrispettivo monetario, compissero operazioni vietate integranti illeciti di rilevanza anche penale.
Aver ospitato all’interno della propria struttura uno o più medici che abbiano compiuto attività medico-chirurgiche su un paziente, senza aver rispettato le regole di prudenza e provocando quindi un danno, è fonte, oltre che di responsabilità medica, anche di responsabilità indiretta nei confronti della danneggiata da parte della struttura sanitaria, senza che questa possa esimersi da tale responsabilità affermando di non aver operato scelte tecniche o di non aver partecipato alle attività svolte.
La Suprema Corte ha più volte ribadito che l’accettazione del paziente in una struttura sanitaria pubblica o privata deputata a fornire assistenza sanitaria ai fini del ricovero o di una semplice visita ambulatoriale, trova la sua fonte nel contratto atipico detto di spedalità o talvolta come contratto di assistenza.
Le SS.UU. hanno avvalorato la complessità e l’atipicità del legame che si insatura tra struttura e paziente, legame che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere. Dall’accettazione del paziente in ospedale la struttura si obbliga a fornire una prestazione articolata, definita genericamente “assistenza sanitaria”, che ingloba al suo interno oltre alla principale prestazione medica, anche una serie di obblighi c.d. di protezione e accessori. Pertanto la responsabilità della struttura sanitaria va ricondotta all’inadempimento di obblighi sulle linee tracciate dall’art. 1218 c.c. e per l’altro verso dell’art. 1228 per la responsabilità dell’ente in relazione alle prestazioni mediche che esso svolge per il tramite dei medici e dei dipendenti.
Con la diretta conseguenza che la responsabilità della struttura nei confronti del paziente ha natura contrattuale “diretta” ex art. 1218 c.c. in relazione ai propri inadempimenti, come ad esempio in ragione della carente o insufficiente organizzazione relativamente ad attrezzature o alla messa a disposizione dei medicinali o del personale medico, ausiliario e infermieristico, e può dirsi solo latu sensu “indiretta” ex art. 1228 c.c., perché derivante dall’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, pur in assenza di rapporto di lavoro subordinato, sussistendo comunque un collegamento tra prestazione da costui effettuata e l’organizzazione aziendale della struttura, non rilevando il fatto che il sanitario risulti essere anche di fiducia dello stesso paziente o comunque da lui scelto.
La Corte inoltre afferma che, in ordine alla responsabilità dei componenti dell’equipe, è dovere del componente di informarsi sulla correttezza delle procedure eseguite prima dell’operazione, con l’obbligo di rifiutare di prendervi parte qualora si accetti l’imprudenza delle stesse, come nelle fattispecie. La violazione delle legis artis da parte dell’aiuto partecipante all’intervento consisterebbe nel non aver rilevato, prendendo visione come suo dovere degli esami ematici e della cartella clinica, che l’intervento operatorio fosse altamente sconsigliato.
Infatti non è condivisibile la statuizione della Corte di Appello, che escludeva la responsabilità del secondo aiuto per essersi limitato solo a partecipare all’intervento, fornendo assistenza ai due chirurghi operatori nel posizionare la paziente e ad accertarsi della mobilità dell’anca della paziente. Nella fattispecie non è in discussione il corretto posizionamento della protesi d’anca, ma si discute di quali siano gli obblighi di diligenza e di prudenza a carico di ciascun componente dell’equipe medica, in particolare di quelli posti in posizione subordinata a fronte della scelta di operare.
Ripercorrendo infatti i molteplici arresti giurisprudenziali di natura penale “in tema di responsabilità medica, l’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali, in quanto tali rilevabili con l’ausilio delle comuni conoscenze del professionista medio” (Cass. penale n. 53315 del 2016).
Con la puntualizzazione che tale principio non si estende a fasi dell’operazione distinte: “In tema di colpa professionale, in caso di intervento chirurgico in equipe, il principio per cui ogni sanitario è tenuto a vigilare sulla correttezza dell’attività altrui, se del caso ponendo rimedio a errori che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio, non opera in relazione alle fasi dell’intervento in cui i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti, dovendo trovare applicazione il diverso principio dell’affidamento, per cui può rispondere dell’errore o dell’emissione solo colui che abbia in quel momento la direzione dell’intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica, non potendosi trasformare l’onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui” (Cass. n. 27314 del 2017).
In relazione alla posizione del componente sotto-ordinato dell’equipe, la Cassazione penale ha recentemente affermato: “In tema di colpa medica, il medico componente dell’equipe chirurgica in posizione di secondo operatore che non condivide le scelte del primario adottate nel corso dell’intervento operatorio, ha l’obbligo, per esimersi da responsabilità, di manifestare espressamente il proprio dissenso, senza che tuttavia siano necessarie particolari forme di esternazione dello stesso”.
Tali principi sono stati recepiti e condivisi dalle sezioni civili (Cass. n. 4387 del 2016), che hanno richiamato la necessità, ai fini dell’esecuzione della concorrente responsabilità dei membri dell’equipe nell’inadempimento della prestazione sanitaria, in base all’effettivo apporto causale di ciascun sanitario, del dissenso manifestato componenti dell’equipe, dissenso la cui esternazione non richiede forme di particolari o vincolate (Cass. n. 4328 del 2105).
La responsabilità dei due chirurghi operatori che hanno operato la paziente è stata affermata, non in relazione a una errata esecuzione dell’intervento chirurgico di protesi, ma in relazione a un comportamento negligente, di non adeguatezza e verifica preliminare delle condizioni fisiche alterate in cui versava la paziente, individuabili a mezzo degli esami del sangue che aveva condotto e a una errata scelta clinica, la scelta appunto di intervenire chirurgicamente, benché non si trattasse di una operazione necessaria né urgente, provocandole una perdita di chances di sopravvivenza a fronte della patologia della quale era già affetta.
Il secondo chirurgo, aiuto in quanto tale, non aveva il compito di operare direttamente, ma era incaricato di compiere alcune operazioni collaterali e preparatorie atte a mettere i chirurghi in condizioni di operare agevolmente. Nessun addebito gli è stato contestato in relazione al compimento delle operazioni di sua stretta competenza. Tutto ciò premesso, però, deve ritenersi che il secondo operatore aiuto dell’equipe non possa andare esente da ogni responsabilità solo per aver compiuto correttamente le mansioni a lui direttamente affidate, proprio per il principio di controllo reciproco che esiste in relazione al lavoro di equipe, secondo il quale l’obbligo di diligenza che grava su ciascun operatore dell’equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo dell’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali.
Inoltre rientra negli obblighi di diligenza che gravano su ciascun operatore dell’equipe chirurgica, sia esso sovra o sotto-ordinato, quello di prendere visione prima dell’intervento chirurgico della cartella clinica, degli esami ematici e strumentali, tutti dati atti a consentirgli di verificare, tra l’altro, se la scelta dell’intervento chirurgico fosse corretta e compatibile con le condizioni di salute della paziente. Deve quindi escludersi che la diligenza del secondo aiuto si limiti al mero svolgimento di mansioni affidate, senza che sia necessaria una preventiva acquisizione di consapevolezza delle condizioni della paziente nel momento in cui questa viene sottoposta a operazione.
In particolare, dal professionista che faccia parte sia pure in posizione di minor rilievo di una equipe, si pretende pur sempre una partecipazione all’intervento chirurgico non da mero spettatore ma consapevole e informato, in modo che egli possa dare il suo apporto professionale, non solo in relazione alla materiale esecuzione della operazione, ma anche in riferimento al rispetto delle regole di diligenza e prudenza e all’adozione delle particolari precauzioni imposte dalla condizione specifica del paziente che si sta per operare. Solo una presenza professionalmente informata può consentire che egli possa in ogni momento segnalare, anche senza particolari formalità, il suo motivato dissenso rispetto alle scelte chirurgiche effettuate e alla scelta stessa di procedere all’operazione.
Per queste ragioni la Corte accoglie il quinto e il sesto motivo di ricorso, condannando le cliniche e i medici in solido al risarcimento dei danni, condannando in manleva anche le rispettive assicurazioni nei confronti dei figli della vittima e della sorella della stessa.
Sentenza estremamente complessa per la presenza di più ricorrenti, ricorrenti incidentali, e controricorrenti. Tutte le posizioni dei singoli litisconsorti sono state valutate e approfondite dalla Cassazione, che ha fatto uno sforzo ermeneutico non indifferente nel tentare di ricomporre i fatti anche in relazione ai giudizi dati nel merito dal Giudice di prime cure prima e dalla Corte di Appello poi.
La sentenza è a conferma della tesi per la quale, quando si lavora in equipe, pur se di fatto è operante il principio dell’affidamento alla altrui diligenza e capacità, che limita quindi l’intromissione dell’altrui giudizio, è presente comunque l’obbligo di diligenza generale in capo a ciascun medico o sanitario nell’adempimento della prestazione medico-chirurgica, non ci si può esimere dal verificare che tutto sia stato accuratamente controllato e verificato prima di procedere con l’intervento.
Prestazione che non si limita di fatto all’atto chirurgico fine a se stesso, ma anche alla valutazione globale e complessiva della situazione clinica del paziente, che potrebbe essere messa in serio pericolo se non ravvisasse limitazioni o esami non perfettamente corrispondenti con l’ideale condizione di salute per poter subire un intervento chirurgico, in grado di compromettere poi l’esito anche a distanza di tempo.
Nel caso in esame non si discute della responsabilità per l’esito tecnico dell’intervento di protesi di anca, intervento tecnicamente ineccepibile, ma della scarsa diligenza impiegata da secondo aiuto (oltre che dai restanti operatori), il quale, pur ravvisando che le condizioni della paziente non erano idonee a subire un intervento chirurgico di tale portata, attraverso la visione della cartella clinica, non ha dissentito rispetto alla decisione presa dai due operatori di iniziare comunque l’intervento chirurgico, esitato poi, a distanza di tempo, con il decesso della paziente per le complicanze infettive sopraggiunte. Il suo mancato e legittimo esercizio del dissenso ha fatto si che la sua posizione non venisse stralciata dal processo, ma venisse invece, alla stregua dei colleghi operatori, considerata parimenti responsabile del danno arrecato ai familiari della vittima.
Dott. Carlo Pisaniello
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