Riceviamo e pubblichiamo l’interessante analisi del dott. Mauro Carboni, responsabile del sindacato Nursing Up della provincia di Roma, sul tema delle pensioni
Gentile Direttore,
da professionista della salute e responsabile del Nursing Up – Sindacato degli Infermieri Italiani- della provincia di Roma non posso trattenermi dall’esprimere alcune considerazioni circa le continue modifiche in tema di pensioni.
Non si tratta di difendere gli interessi di una categoria né di impostazione ideologica.
Ritengo plausibile che alcune tipologie di lavoro possono essere svolte anche fino ai 70 anni ma sono ancor più convinto della necessità di dover classificare tali tipologie in
ragione di alcuni criteri.
Non possono essere messi sullo stesso piano, ad esempio, i dirigenti e il personale non direttivo. Lo stesso dicasi per i lavori “sedentari” rispetto a quelli che richiedono un elevato impegno fisico, ecc. . Occorre uscire da anacronistici concetti che considerano usurante il solo lavoro nei turni di notte. La gravosità del lavoro, gli ostacoli al suo agevole svolgimento e, soprattutto, i suoi risultati, non dipendono solo dai turni notturni.
A sostegno delle mie affermazioni cito alcuni riferimenti importanti.
Gli operatori della sanità non appartenenti al comparto dei dirigenti, sono sempre più vecchi. L’età media della categoria infermieristica, senza rilevanti differenze di genere, ha ormai superato la soglia dei 50 anni (Studio del ministero della Salute, 2012).
Circa due terzi di questi lavorano nelle corsie, nelle aree di assistenza intensiva e sale
operatorie.
Un’analisi effettuata dalle organizzazioni ordinistiche di questi professionisti – “In Italia 47 mila infermieri in meno: Così assistenza a rischio (2016)” – analizzando il conto annuale della Ragioneria dello stato basato sul 2014, afferma che in cinque anni sono stati persi 7.500 lavoratori, per lo più a causa del blocco del turn over legato alla crisi nelle Regioni soggette ai piani di rientro.
Questo significa meno forza lavoro in un conteso in cui i bisogni assistenziali sono sempre di più e sempre più complessi. Non dobbiamo perdere di vista il dato epidemiologico e quello demografico: i pazienti vivono più a lungo e con malattie cronico-degenerative.
Ciò richiede al personale di assistenza uno sforzo maggiore e prolungato nel tempo.
Uno studio di revisione (comprendente 132 articoli sulla tematica in esame) con lo scopo di determinare la prevalenza dei dolori muscolo – scheletrici e le lesioni riportate dagli infermieri e dagli operatori di supporto alle attività assistenziali (in Italia
rappresentati dagli Operatori Socio Sanitari – OSS) effettuato in una struttura di lungodegenza (Prevalence of Musculoskeletal Disorders for Nurses in Hospitals, Long-Term Care Facilities, and Home Health Care: A Comprehensive Review – Davis KG, Kotowski SE), ha messo in evidenza che i problemi muscolo – scheletrici nella professione infermieristica sono stati ampiamente indagati in tutto il mondo.
Questo testimonia la rilevanza del fenomeno e la stretta correlazione con il lavoro infermieristico.
Poiché è aumentata la sopravvivenza in presenza di malattie croniche, l’obesità è sempre più presente e le moderne raccomandazioni assistenziali richiedono una mobilizzazione precoce…., lo studio afferma che i setting assistenziali interessati si estendono anche al domicilio dei pazienti e le lesioni cui sono esposti gli infermieri possono riguardare regioni del corpo come le spalle e le estremità superiori oltre la schiena che risulta la più colpita.
Numerosi altri studi, dei quali ometto la citazione per ragioni di spazio, hanno evidenziato che la movimentazione manuale dei carichi può determinare lesioni acute e croniche del rachide.
Tali patologie, pur essendo considerate ad eziologia multi – fattoriale, si palesano in condizioni di sovraccarico biomeccanico lavorativo. Tale sovraccarico rappresenta un elemento eziologico sufficiente a generare discopatie degenerative discali, protusioni discali, ernie discali e degenerazione del segmento vertebrale (artrosi).
Il fatto che tale patologia non sia stata ancora inserita nell’elenco delle malattie professionali tabellate lascia pensare più ad una strategia di politica economica che a quanto emerge dalle evidenze scientifiche.
Tra i settori principalmente coinvolti in questo problema la Sanità è al primo posto, al secondo si colloca il comparto edile ed a seguire quello dell’industria meccanica e trasporti; Gli operatori sanitari, tra i quali spiccano gli infermieri che svolgono la loro attività nei reparti di assistenza, rappresentano le figure professionali maggiormente esposte.
Anche i nuovi assunti o neo-assegnati ai reparti di degenza ospedalieri contraggono lesioni all’apparato muscolo – scheletrico invalidanti già dopo 10 anni di lavoro.
Naturalmente anche lo stadio dello sviluppo organizzativo del contesto lavorativo contribuisce al fenomeno.
Strutture sanitarie dotate di organici più corposi e tecnologie avanzate possono favorire il contenimento o il ritardo della comparsa delle lesioni.
La nota dolente è che la sanità pubblica italiana non assume più nessuno, anzi fa fatica a stabilizzare anche il lavoratori precari e le tecnologie a scopo assistenziale, a partire dalle infrastrutture, risultano assenti o inadeguate.
Questo scenario, difficilmente confutabile da chiunque, correlato alle ultime riforme pensionistiche rischia di compromettere l’efficacia, oltre che l’efficienza, dei servizi sanitari. Lavoratori stanchi, invecchiati, sottoposti a turni prolungati per l’inadeguatezza degli organici, generano errori che possono danneggiare i pazienti e aumentano il rischio di infortuni ed episodi di malattia per gli stessi professionisti.
Non di rado si sentono persone ricoverate commentare lo stato fisico degli infermieri più anziani. Alcuni addirittura chiedono di poterli aiutare in manovre assistenziali
evidentemente impegnative dal punto di vista fisico. Invito tutti ad immedesimarsi nella situazione ed immaginare l’impatto psicologico su un infermiere sessantenne che si sente offrire aiuto da un paziente.
Secondo la classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, una persona può dirsi giovane quando si trova nel range compreso tra i 25 ed i 44 anni, di età media
nell’intervallo da 44 a 60, anziana tra i 60 ed 75 anni ed infine sono da considerarsi
vecchi coloro che si trovano in un’età compresa tra i 75 ed i 90 anni.
Classificazione sovrapponibile quella derivante da molti studi sociologici effettuati in paesi diversi.
La responsabilità politica non può mostrare rigorosità soltanto tenendo a bada i conti e i bilanci economici senza guardare oltre, ma deve fare i conti anche con il bilancio sociale.
Quale sarà il risultato di queste manovre pensionistiche su questa tipologia di lavoratori e quale quello sulla cittadinanza bisognosa di cure e di assistenza?
Quanto costerà questa miope scelta anche in termini economici?
Qua non stiamo parlando di privilegi come il vitalizio e le pensioni (intoccabili) dei parlamentari ed ex, ma parliamo della vita delle persone oltre che dell’antieconomicità di mandarle in pensione a 67 anni e più.
Sarà inutile, quanto ridicolo, lamentarsi del numero delle assenze per malattia o per infortunio poiché ogni giornata lavorativa, dopo una certa età o dopo una certa anzianità di servizio, esporrà gli infermieri a problemi di salute fisica.
Anche trincerarsi dietro i dettami dell’Unione Europea richiede onestà intellettuale e capacità di analisi comparativa.
In Europa il personale infermieristico ha una carriera mentre in Italia nasce e muore nella stessa categoria contrattuale.
Tanto per fare un esempio, nel Regno Unito (Brexit o no, sempre di Europa si tratta) gli infermieri sono contrattualmente classificati in livelli denominati band e svolgono un lavoro sempre più evoluto man mano che procedono dal band 5 (primo livello di inquadramento) al band 9.
Il contratto italiano prevede per gli infermieri la sola categoria “D”, con la massima escursione (per poche unità in ogni azienda) ad un livello economico super (Ds) all’interno della stessa categoria contrattuale.
Non è contemplata, per gli infermieri italiani, alcuna progressione di carriera, né un impiego progressivamente evolvente. Solo questo garantirebbe, ad esempio, con il passare del tempo e quindi con l’aumento dell’età anagrafica, la possibilità di passare
ad incarichi sempre più intellettuali, specialistici che, per lo meno in parte, permetterebbero l’allontanamento da attività fisicamente gravose.
Glisso sul modello di organizzazione del lavoro nell’ambito sanitario italiano, rispetto a
quello anglosassone e degli altri Paesi d’Europa, per non appesantire la situazione.
Soltanto guardando al Belgio, alla Francia, ma anche alla Spagna ci si rende conto del nostro livello di demansionamento.
Ritengo che il comparto sanitario debba essere valutato con maggiore considerazione e
competenza in merito alla disciplina pensionistica, il rischio è il tracollo dell’intero
Servizio Sanitario Nazionale.
Dott. Mauro Carboni
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