Simone Speggiorin, veneziano, 36 anni, cardiochirurgo pediatrico, ha un record. Ma in Gran Gretagna
“Dell’Italia mi manca solo il caffè”. Colpisce duro e non fa sconti a nessuno il medico veneziano Simone Speggiorin: con l’orgoglio di chi a 36 anni, partito da Olmo di Martellago (Venezia), s’è buttato alle spalle una carriera da precario ed è diventato il più giovane cardiochirurgo a capo di un’unità (l’equivalente del primario italiano) di tutta l’Inghilterra.
Sorriso simpatico e modestia sorprendente in chi ha un curriculum che autorizzerebbe a parlare di lui come di un genio del bisturi, Speggiorin parla nell’intervallo tra la sala operatoria e un meeting al Glenfield hospital di Leicester. Pone una sola condizione: “Non chiamatemi cervello in fuga, perché io non sono scappato, ho solo inseguito i miei sogni”. Resta il fatto che si è specializzato in cardiochirurgia a Padova, nel 2009, e ora è il più giovane primario d’Inghilterra.
Com’è accaduto?
La storia è lunga. Direi che ho lavorato duro, ma sono anche stato molto fortunato. Il professor Giovanni Stellin, con il quale mi sono specializzato a Padova, mi presentò nel 2009 il professor Martin Elliott, del Great Ormond street di Londra (uno degli ospedali pediatrici più importanti al mondo, ndr), con il quale ho scritto un articolo scientifico. Evidentemente a Elliott piacque il mio modo di lavorare, perché mi propose di seguirlo a Londra. Il mio sogno era lavorare con i bambini e il Great Ormond è il meglio che un pediatra possa desiderare. Così ho fatto le valigie e sono partito.
Anche Padova ha alta tradizione di cardiochirurgia pediatrica. Era certo di non avere qui le stesse chance?
Purtroppo sì, ne ero più che sicuro. Vedevo davanti a me lo spettro della precarietà a oltranza, la palude dove si dibattono troppi miei colleghi. Non volevo scendere a compromessi e volevo invece la possibilità di andare avanti senza accontentarmi di quel poco che poteva offrirmi l’Italia. Pensavo, e credo di avere avuto ragione, che in un sistema come quello degli ospedali italiani non ci fosse posto per me.
Quindi arriva a Londra. Poi che cosa succede?
Decido di specializzarmi con Elliott in chirurgia tracheale pediatrica: una branca molto specialistica, tant’è che in Inghilterra siamo solo in 3 a praticarla. Finita la specializzazione, in attesa che si liberasse un posto, volo in India: a Bangalore. Lì c’è un’alta incidenza di malformazioni al cuore nei bambini e sapevo che ci poteva essere bisogno di me, i medici indiani sono molto bravi ma pochi. Ho trascorso lì un anno.
Un’esperienza che l’ha cambiata?
Non so se mi abbia cambiato. Certo è stata toccante, difficile e impagabile. E non è conclusa, perché faccio parte di una charity, che si chiama Healing little hearts (in inglese “piccoli cuori in cura”, ndr) e che è nata proprio a Leicester, con la quale 3 volte l’anno torniamo a Bangalore per operare i bambini.
I suoi genitori come hanno preso la sua decisione?
Con un misto di felicità, perché capivano che la mia carriera ne aveva bisogno, e di dispiacere. Oggi però anche loro vogliono andarsene dall’Italia. E una delle mie sorelle, che si sta laureando in farmacia, vuole trasferirsi in Inghilterra col fidanzato. L’Italia non premia l’impegno.
Se si modificasse l’organizzazione degli ospedali e le strutture sanitarie fossero più aperte ai giovani, lei potrebbe prendere in considerazione l’idea di tornare?
Le rispondo con un aneddoto. Quando un medico che lavora in ospedale compie 65 anni, in Inghilterra la direzione manda un tecnico a staccare dalla porta del suo studio la targhetta con il nome. Significa che dal sessantacinquesimo compleanno sei in più: è ora di lasciare il posto a chi è più giovane.
In Italia i medici vanno in pensione a 72 anni.
E chi cerca di cambiare le cose rimbalza contro un muro di gomma. Io ho fatto domanda per un concorso in Italia, quasi 4 anni anni fa, e la risposta mi è arrivata lo scorso settembre.
Ma qui com’è la vita, per un italiano?
Siamo considerati, forse a ragione, un po’ inaffidabili. Io, e come me tanti altri, ho dovuto lavorare il doppio per meritare fiducia. Ora ce l’ho fatta e dico che nonostante i sacrifici sono stato fortunato: dirigo un’unità, ho la mia équipe, la mia sala operatoria. Ho un buon stipendio
e lavoro sereno. I miei coetanei rimasti in Italia, invece, che cos’hanno?
Non si sente mai un po’ “in colpa” per essere andato via?
No. Perché mai dovrei?
Fonte : panorama.it
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