Con sentenza del 6 febbraio 2024 il Tribunale di Lecce ha condannato la Asl Lecce a risarcire il danno da demansionamento nella misura del 15% dell’ultima retribuzione per gli anni rivendicati (dieci) da una dipendente infermiera. In totale il risarcimento ammonta a 35.480 euro.
Il giudizio trae origine dalla domanda con cui l’infermiera chiedeva di accertare il demansionamento nella misura in cui, sin dall’inizio del rapporto di lavoro, era stata costretta a svolgere, in maniera prevalente e costante, mansioni differenti e inferiori (svolte dal personale di supporto) da quelle del profilo di appartenenza, con conseguente mortificazione e dequalificazione professionale.
L’infermiera ha provato l’assunto mediante la produzione dei turni di servizio, documentando in dettaglio anche il numero dei colleghi in forza nel medesimo reparto (anche a dimostrazione della carenza di personale necessario), nonchè mediante l’ascolto di testimoni (infermieri colleghi, oss e medici) che hanno confermato le sue doglianze sullo svolgimento di mansioni inferiori.
Dalle allegazioni di parte ricorrente il Tribunale ha tuttavia ritenuto che le mansioni svolte dalla dipendente rientrassero non già nella categoria del personale di supporto, bensì in quello di infermiere generico (e dunque non di “infermiere professionale”, per cui era stata assunta), in base al DPR 225/74.
Ha pertanto riconosciuto il danno da demansionamento nella misura del 15% dell’ultima retribuzione per dieci anni, e non di 1/3 dell’ultima retribuzione, come applicato dal Tribunale di Roma in una precedente sentenza (n. 2687/2022), poichè in questo caso il demansionamento si era protratto per 20 anni e si era trattato di un declassamento di ben due categorie, e non di una (da infermiere professionale a generico), come nel caso di specie.
Inoltre il Tribunale ha ricordato che: “Il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, e peraltro senza procedere in alcun modo a quella verifica delle circostanze di fatto allegate dal ricorrente, e più in generale degli elementi acquisiti al giudizio, che la stessa giurisprudenza richiede di considerare”.
Quindi, “ai sensi dell’art. 2729 Cod. civ. (se il danno da demansionamento e dequalificazione professionale non ricorre in modo automatico in ogni caso di inadempimento datoriale), esso può essere provato dal lavoratore, attraverso l’allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, potendo a tal fine essere valutati la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione”.
E ancora: “Come in termini condivisibili chiarito da Cassazione civile, sez. lav., 4.11.2021 il protrarsi nel tempo di una situazione illegittima come il demansionamento del lavoratore non può essere intesa semplicemente come acquiescenza a una situazione imposta dal datore di lavoro, trattandosi di una forma di illecito permanente”.
Concludendo: “Ne consegue che la pretesa risarcitoria per il danno alla professionalità si rinnova in relazione al protrarsi dell’evento dannoso, impedendo il decorso della prescrizione fino al momento in cui il comportamento contra jus non sia cessato, né sussistono limiti alla proposizione della domanda ed al conseguente soddisfacimento del diritto ad essa sotteso per tutto il tempo durante il quale la condotta è stata perpetuata”.
Redazione Nurse Times
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